Drammatico, Sportivo

THE WRESTLER

Titolo OriginaleThe Wrestler
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Durata105'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Randy “The Ram” Robinson, mito del wrestling negli anni 80, tenta di raccattare le ultime soddisfazioni di una vita che lo vede come tramontato, alternando il duro lavoro con qualche incontro settimanale. Colpito da un infarto in seguito ad un violentissimo match, proverà a dare un senso alla propria esistenza, nella piena lucidità che i bei tempi sono ormai lontani. Ci vuole ben altro però per abbattere The Ram, pronto a rialzarsi e a ritornare quello di un tempo…

RECENSIONI

Risorto nello stesso luogo in cui era stato sancito, piuttosto frettolosamente, il suo fallimento, Aronofsky sembra invertire rotta con un’opera in apparenza lontana dal precedente The Fountain. Non è giusto parlare di capovolgimento linguistico o nuove frontiere della sua poetica (principalmente visiva), perché è presto, bisogna attendere i nuovi lavori (due in programma Black Swan e The Fighters) prima di osare qualche giudizio complessivo. Una cosa però è certa, The Wrestler è un film diverso, se messo a confronto con i precedenti esperimenti: il testo è rigorosamente lineare, di una trasparenza ed essenzialità impeccabile; al visionario virtuosismo narrativo e visivo, di una compulsività della ricerca (della vita, di Dio, dell’Amore, della Ragione e mille altre cose) ai limiti dell’ossessività, il regista sostituisce un registro ben controllato e fedele ad una sceneggiatura per la prima volta non sua, che gli permette di emanare con il sottointeso una serie di tematiche a lui care. Scegliere la Passione di un wrestler tramontato (e di un’America di Ieri che cerca ancora qualche forma di sicurezza nell’Oggi) ha una sua logica, continuando un percorso mistico da sempre reso evidente. Fa pensare la riflessione sull’immagine che funge da sottotraccia (accompagnata da una geniale polemica), con la quale Aronofsky critica indirettamente un’idea di cinema. Lui “è cambiato” (un Sacrificio a suo modo), ma non per questo, si è censurato nell’attaccare l’esasperata repulsione verso il suo lavoro precedente (a Venezia The Fountain è stato oggetto di burla e feroci sarcasmi). Un autore a tutti gli effetti che, nell’arginarsi, è riuscito a stupire con un film immenso, egregiamente interpretato da Mickey Rourke (siamo onesti, a priori nessuno ci avrebbe scommesso sopra). Inevitabile soffermarsi sulla performance dell’attore, incredibile nel giocare con la fissa rigidità del volto e del corpo, nel donare al suo personaggio un senso di fragile tenerezza, spesso impacciata e timorosamente nascosta dentro un contenitore mastodontico. (La sequenza iniziale è straordinaria: seguito di schiena durante un suo ritorno a casa, a sottolinearne l’immensa corporatura, Randy non trova le chiavi ed è costretto a dormire in macchina. Al risveglio, ci viene mostrato per la prima volta il suo volto, smottando da subito ogni possibile cliché: al sole risplende il volto di un’umanità sincera e pulita). Aronofsky lo segue continuamente (macchina a mano e in tilt), esplora ogni sua espressione fisionomica per superarla, indicandoci un cuore, una Passione che ben pochi riescono a vedere. Nell’estetica di una fotografia sporca, livida, che contamina e scioglie la spettacolarità trash del wrestling, che ispessisce un degrado urbano inetto nel contenere il suo (possibile) Salvatore, l’autore graffia e suggerisce. In un certo senso vende quello che la gente vuole, una nuova immagine sacra, pessimisticamente intesa (e fraintesa) sulla sua superficie.

In The Wrestler la Passione di Cristo è un referente iconografico fin troppo evidente, un’esibizione della carne, le cui piaghe simboliche trasformano the Ram in un nuovo, atipico Salvatore. Breve elenco di elementi cristologici: le ferite riportate nei combattimenti (la corona di spine, il taglio sul costato, la puntatrice/chiodi), alcune caratteristiche fisionomiche (la capigliatura, il tatuaggio sulla schiena), oggetti (il ciondolo a forma di capro -espiatorio/agnello-), etc. La chiave interpretativa non deve essere limitata al corpo, perché Aronofsky, fin da subito, prende le distanze da un fresco stereotipo cinematografico come quello di Mel Gibson, esasperato nell’ossessivo desiderio di mostrare il sacrificio su un piano prettamente fisico. Ciò che in realtà accomuna il protagonista con Cristo è la dimensione interiore, il dolore nelle sue silenziose manifestazioni di una vita quotidiana che non gli permette di essere un uomo autentico, di essere Randy (e basta). Un’intenzione illuminante che vede la sua messa a fuoco nella sequenza precedente l’infarto. L’attacco cardiaco è giustificato (metaforicamente) non dalle ferite riportate, ma dal ricordo di queste: The Ram crolla a terra dopo essere stato medicato e aver rivissuto in flashback l’incontro (unico caso di tutto il film in cui viene a mancare la linearità narrativa). Non è un collasso della carne (presto rimarginata), ma una crisi spirituale di un uomo che presto dovrà vivere la sua Passione in terra, non più sotto i riflettori di un immaginario di consumo. L’America appare inconsapevole verso l’immagine, non riesce (e non vuole) entrare in contatto con la precarietà che c’è dietro. Randy è la vittima di tale mancanza, perché impossibilitato a rinunciare alla propria maschera, ad utilizzare il corpo in una natura diversa da quella del ring. La tenerezza dei gesti e comportamenti, in antitesi con lo stereotipo virile e violento (bellico?) del suo alterego[1], non trova il modo di farsi accettare da un pubblico saturato, il cui sguardo rimane appiattito sulla superficie della carne/immagine. La massa è assuefatta, si accontenta nel vedere una bandiera iraniana spezzata in due[2], nel “vivificare” degli stereotipi visivi, ora assecondandoli senza critica[3], ora fraintendendoli, sempre e solo con l’assurda certezza di non riuscire a capirne la realtà effettiva. Randy si presta così ad essere un nuovo Messia incapace di comunicare, solo con se stesso e con la propria Passione: anche Cristo si veste e sale sulle corde per essere consumato senza cognizione alcuna. Il volo in fuori campo sotto l’estasi degli spettatori lo libera dalla croce (richiamata dalla posizione del corpo), da un’immagine che lo obbligava ad essere solo ed esclusivamente The Ram.
Il pubblico può così appagarsi con quello che ha sempre voluto vedere (credere).

[1] Fuori dall’entertaiment Randy mostra una personalità tenera e infantile (che nasconde allo stesso tempo le caratteristiche regressive dell’anzianità). Il suo corpo è un portatore di senso opposto rispetto a quello che lo stereotipo dovrebbe richiedere.
[2] Una delle tante letture del film è quella contro la Guerra in Iraq, ma nell’economia del discorso, è meglio limitare il tutto ad una semplice pulce nell’orecchio. A parte i rimandi espliciti (spicca su tutti il reduce che passa la protesi a The Ram, perché colpisca l’avversario), la sequenza precedente l’infarto può essere vista come l’impossibilità di rielaborare i ricordi della violenza vista. Il combattimento prende così le sembianze dell’esperienza bellica.
[3] Ne cito due: il bambino che gioca a Call of Duty 4 (lo scenario è l’Iraq) e l’agghiacciante florilegio di poster erotico-pornografici dei pompieri nella stanza della ragazza con la quale Randy ha un amplesso occasionale (so benissimo che nella realtà il pompiere è uno stereotipo sessuale americano simil-idraulico, ma dietro si può nascondere qualcosa di molto più amaro e cinico).

Verso la Morte

In The wrestler c’è una struttura binaria basata sulla ripetizione, un dato quasi sovrannaturale ancora prima della trasfigurazione Randy/Gesù, ovvero il ritorno di alcune figure e situazioni: due sono gli incontri tra The Ram e Ayatollah, due i match mostrati sullo schermo, due forse anche gli infarti, due le scene di danza di Randy (ulteriore corrispondenza: la lotta – la danza) eseguite con le due donne presenti nella sua vita. Due le chance per ripartire. L’anima del film, infatti, è lo sforzo alla ricerca di un baricentro. L’apparente semplicità (sbando – tentata riabilitazione – fallimento – deragliamento finale) è quindi contraddetta da una serie di vorticosi movimenti interni alla pellicola: quelli di Randy che tenta di avvicinarsi sia alla figlia che alla donna amata, muove piccoli passi verso di loro, sembra prossimo al risultato, ma subisce sempre una spinta di rigetto e ricade all’indietro. Ogniqualvolta è vicino a raddrizzarsi, il tentativo sfuma a causa di circostanze fatali. Randy e la spogliarellista Cassidy, il loro passato e presente, suonano complementari: dai matrimoni falliti alla prole a carico – tutto sullo sfondo, anche musicale, degli anni Ottanta –, oggi sono prigionieri della loro attività, ovvero guadagnarsi da vivere attraverso l’esibizione di sè; quando entrambi vogliono smettere, infatti, le prospettive risultano puntualmente deluse e le rispettive condizioni si realizzano come immutabili: e intanto questa vita li ha consumati e ha logorato anche la predisposizione a intavolare un legame affettivo; Randy e Stephanie hanno un trascorso drammatico e sono tenuti a distanza dal contrasto tra corpo e mente (la ragazza è mostrata libri alla mano, risponde al padre: “Sto andando a lezione”), un altro contatto impossibile. L’uso del corpo, d’altronde, per Randy è davvero tutto ciò che sa fare: simula le sue mosse con i bambini, ostenta le cicatrici, balla, insomma anche fuori dal ring per rapportarsi agli altri si mostra, unico mezzo possibile. Dall’altra parte è proprio questa la richiesta che arriva da ogni angolo dell’America contemporanea: basso intrattenimento, pornografia – il video che guarda il principale del supermarket, i molti poster osceni che sbucano nel film -, a livello letterale ma intesa anche come pornografia della violenza (Cassidy come Randy, in questo senso, lo striptease come il wrestling). Unico ribaltamento, in una delle riprese più toccanti, il bimbo che gioca innocentemente con le action figures dei lottatori; in generale i bimbi – quelli che circondano il protagonista – sono la sola nota di speranza concessa, seppure già minati da tracce di corruzione, vedi ancora il riferimento iracheno. Nel frattempo il pubblico si diverte per poi dimenticare i suoi feticci (i fan riconoscono Randy, tutti gli altri lo ignorano), il prezzo per soddisfare il mercato può coincidere con la vita: non a caso The Ram incontra e saluta soggetti mutilati, malati, paraplegici, sembra conoscere bene queste comparse inquietanti, che sono indizi espliciti della sua imminente destinazione. L’attacco di The wrestler all’idea di entertainment è totale e devastante: la ripartizione umana e sociale, il pubblico e il wrestling, chi vuole divertirsi contro chi deve divertire, conduce direttamente alla Morte. Lei è l’altra protagonista, che comincia a espandersi sullo schermo - l’infarto, naturalmente, ma soprattutto la sequenza nel bosco: il wrestler si accascia tra gli alberi spogli e sembra prenderne coscienza definitiva – e prosegue fuori campo. Anche la fine è sottintesa. The wrestler è un film autunnale quanto The fountain, sulla morte e la lotta per impedirla, ma ottiene l’effetto contrario: quando Aronofsky urla non supera la confezione, se parla sottovoce ci conquista pienamente.

L’anno dell’ariete

Requiem for a (d)R(e)am.
Aronofsky torna al suo titolo più estremo (e discusso), spogliato di tecnicismi e arricchito di un umanesimo muscolarmente dirompente. Ancora una volta il corpo è territorio sfregiato in cui si danno cruenta battaglia sogni e disillusioni, ancora una volta la società dello spettacolo violenta l’anima e la carne. La camera a spalla di Aronofsky stilla sudore, fatica, lacrime, sangue: l’immenso Mickey Rourke, paria hollywoodiano, una volta svelato il suo volto pesto e gonfio, si trova scaraventato al centro di uno snuff movie pieno di grazia. Cinema a brandelli, tumefatto, scuoiato, come il suo protagonista che mette in vendita la sua vecchia carne, martoriata e maciullata, al pubblico pagante (anche al bancone del supermercato). Pelle e muscoli piagati, inchiodati, segnati dalle stimmate del Calvario dell’entertainment: dalla cicatrice al centro del petto Rourke/Randy estrae il suo cuore sacro e ansimante e lo offre in sacrificio alla vista altrui. In The Wrestler l’America ormai post-bushiana loser e freak, sorda e menomata, rimpiange vanamente l’edonismo reaganiano steroideo degli anni ’80 e maledice il ripiegamento esistenziale e il malessere dei ’90 che l’hanno portata alla spettrale e invernale malinconia degli anni duemila. Rimanere a combattere uno scontro finto eppur mortale sul ring (o dare in pasto il proprio corpo tatuato di strade sbagliate e occasioni perdute nella lap-dance, come fa la splendidamente sgualcita Marisa Tomei/Cassidy) diventa un paradossale antidolorifico, l’unico modo per non farsi davvero male e per non accorgersi dell’opera di devastazione del Tempo, nell’amarissima illusione che un altro Rocky o un altro Flashdance siano possibili. Pietra tombale posta sull’estetica e le bandiere eighties, melodramma furibondo della solitudine senza scampo e dell’inadeguatezza alla vita reale, ballata inesorabile che canta l’agonia di un cuore che si rialza solo per precipitare da un’altezza maggiore.

Have you ever seen a scarecrow filled with nothing but dust and wheat?
If you’ve ever seen that scarecrow then you’ve seen me
Have you ever seen a one-armed man punching at nothing but the breeze?
If you’ve ever seen a one-armed man then you’ve seen me

In forma d’appunto

1. Il brutto e il contemporaneo

“In modo malato, quando un’epoca è fisicamente e moralmente corrotta non dispone della forza di concepire il bello autentico ma semplice, ma vuole ancora godere del piccante, del frivolo e del corrotto nell’arte. Per solleticare i nervi intorpiditi si mescola l’inaudito, il disparato e il ripugnante al grado massimo. La disarmonia degli spiriti si nutre del brutto, che per loro assurge a ideale della propria negatività. Cacce, giochi, gladiatori, relazioni lascive, caricature, melodie effeminate, pesanti strumentazioni, una poesia di fango e sangue sono le caratteristiche di queste epoche”
Karl Rosenkranz, Estetica del brutto

Coltiva e pratica lo stucchevole, il disarmonico, il grottesco. Il deforme, il meschino, il goffo. L’eccedente. Il cinema di Aronofksy rampolla da categorie estetiche infide, il suo sguardo si ciba dell’ipertrofia del contemporaneo, scevro da fisime di sorta ingurgita insieme il dolce e l’amaro, il ghiotto e il nauseante: ha l’impudenza del sublime e il coraggio di innervare il gusto imperante nelle sue pieghe più oscure, confrontandosi con estetica pubblicitaria ed etica televisiva, negandosi a facili e rassicuranti catarsi che ripuliscano la morale dello spettatore dallo sporco frequentato, preferendo all’ironia riconciliatoria l’inadeguatezza scomoda del ridicolo, mentre si offre allo smisurato. Costantemente, testardamente fuori misura, flirta con il basso e con l’abnorme, scomodo e spigoloso rigetta ogni ridimensionamento. Per questo l’educato e composto gusto dei detrattori non può che trovarlo ributtante[1].

2. Straight story

Reduce dal flop di The fountain - un film in cui la cinica abilità compositiva di Aronofsky rincorreva un progetto di spropositata ambizione, immolandosi ad essa- con The wrestler il regista (l’autore, si può dire) abbassa il tiro, addensa ciò di cui solitamente si ciba il suo immaginario nelle dinamiche fisiologicamente sottese al baraccone wrestling/strip club, s’aggrappa al corpo di Mickey Rourke ancorandovi il motore della narrazione (in Aronofsky ricorre il conflitto tra corpo e tempo, tra corpo e immagine, e “The Ram” non dista eccessivamente dalla madre di Requiem for a dream), confeziona un dramma, post-eastwoodiano per umori, ad alta - e iperrealistica - leggibilità: l’ esposizione dei corpi, le simmetrie tra Randy e Cassidy, la lacerazione intima garantita dall’incompatibilità dei ruoli sociali e sottolineata, come letteratura esausta insegna, dalle incertezze nella nominazione – Randy Razinski / Randy “The Ram” Robinson, Pam/Cassidy-, il parallelo con la Passione, detto e insieme parodiato con il riferimento al film di Gibson, la contestualizzazione del protagonista nella categoria “freaks”, ribadita da nani e mutilati, il messaggio a cuore e microfono aperto sul ring, tutto si esprime sotto il segno dell’evidenza; cineasta dell’ostentazione Aronofsky ostenta, appena sotto la patina realista, la linearità simbolica, la semplicità basica del suo film, con la strafottenza di chi sa l’incedere ammaliante del proprio sguardo capace di dissimulare l’evidenza stilizzata dell’artificio; al contempo su un sontuoso piatto porge significati precostituiti, spesso triti, sollazza e soddisfa l’intelligenza dello spettatore, la capacità di riconoscere, sommare, giungere al sicuro approdo interpretativo. Apologo dall’animo romantico[2], meccanismo ad orologeria emotiva che sposa coraggiosamente un loser totale - personaggio autistico, puerile, socialmente inadeguato, frutto, eroe e vittima della contemporaneità[3] -, riflessione automatica sulla messa in scena del corpo (con relativa amplificazione dovuta a echi tra personaggio e attore), The wrestler è un film sostanzialmente “facile”, abilissimo, la conferma indiscutibile del talento di Aronofsky, calibrato ed esibito arrogantemente a bella posta nell’ossequio agli stereotipi del genere eroe (sportivo) decaduto, mappati con disinvoltura e, quando apparentemente celati, esposti sistematicamente alla gioia ermeneutica dello svelamento: come lo spettacolo del wrestling, il film è un trucco, ma fa male davvero.

3. Perfezione e delusione

L’empatia costruita nei riguardi del protagonista e la tendenza (comunque mai appagata) della superficie verso il realismo aumentano il grado di digeribilità dell’universo di Aronofsky[4], nonostante la sfacciata esibizione dell’architettura, delle logiche della finzione e di quelle della deformazione lo celebrino. E’ nella perfezione del prodotto The wrestler, nel suo sapersi offrire, nel suo esibirsi su terreni più accettabili rispetto, quantomeno, a Requiem for a dream e The fountain, che si specchia la (mia) delusione: come se il ributtante si fosse ammansito, come se, d’un tratto, potesse essere assimilato, come se non fosse più, scomodamente, “altro”. Qui non infastidisce, non repelle, viene compreso. Ed è una resa, per quanto splendida. Tu chiamala, se vuoi, sopravvivenza autoriale.

[1] Si pensi alla tendenza diffusa di rifiutare superficialmente film perché, semplicemente, si affidano a certe categorie estetiche, senza che vi sia interesse a comprenderli nel profondo: l’accoglienza di “The fountain” non dista troppo dalle stroncature a “Un’altra giovinezza” di Coppola, all’astio verso le stilizzazioni caricaturali dell’ultimo Shyamalan, all’insofferenza verso il kitsch di Lurhmann, all’odio viscerale verso la lucida e amorale strafottenza di un Gaspar Noè o al menefreghismo che accompagna in molti loci l’opera dell’ultimo Argento. Per quanto riguarda Lynch, che affonda le mani sistematicamente nel trash, l’accettabilità è garantita dal filtro della labirintica visionarietà, dinnanzi alla quale il Nostro Critico Conservatore – detto così per puro spirito di provocazione, suvvia - si crogiola compiaciuto, non curandosi del substrato (anche e soprattutto estetico) dalla quale sgorga, deformata.
[2] Ovvero il cui giudizio non è basato sull’ “ammirazione”, ma sulla “passione”
[3] In questo “The Ram” si differenzia dal classico eroe sconfitto dal presente e nostalgico di mondi passati (personaggio a cui in fondo aspira, si vedano gli appunti sulla musica degli anni ’80 e l’arrivo di “quel frocio di Cobain”): ma qui è il tempo di Randy che passa inesorabile, il baraccone, al massimo, rallenta.
[4] Da pop il suo cinema si è fatto popolare”, mi scrive giustamente Tallarita.

Prima visione: aderenze

La pelle di Rourke è letteralmente la pellicola di Aronofsky: maciullata, tumefatta, sanguinante. Identificazione totale tra cicatrice e fotogramma, ferita e frame, squarcio e inquadratura. Un film eccessivo e squilibrato, possente e fragile, artificioso e iperrealistico. Disperatamente vitale. Solo quando "The Ram" vola via dall'inquadratura è possibile chiudere l'otturatore. Ovazione.

Seconda visione: distanze

Rivedo The Wrestler e, come al solito, la revisione produce in me impressioni inedite, associazioni sorprendenti, ruminazioni e divagazioni varie. L’aderenza tra pellicola e pelle che mi aveva colpito con tanta intensità alla prima visione è davvero così totale e inderogabile? La solidarietà tra lo sguardo della cinepresa e il corpo di Randy è davvero così costante e categorica? Revisione facendo, mi accorgo di un paio di cose a mio avviso fondamentali: la prima è che la figura di “The Ram” è eminentemente metaforica. Non che questa sia una scoperta sconvolgente, d’accordo, ciononostante mi pare innegabile che Randy rappresenti un’immagine poderosamente caricaturale di un paese che ha bisogno di mostrare i muscoli, esibirsi e combattere spettacolarmente per dare un senso alla propria esistenza (per “autorappresentarsi”), a prescindere dai danni e dalle lesioni interne che questa condotta comporta. Fin dall’inizio vediamo fare capolino antagonisti politici: nelle locandine, volantini, e ritagli di giornale che tappezzano i titoli di testa si scorge, oltre allo storico rivale “The Ayatollah”, il nome di un altro lottatore connotato politicamente: “The Sputnik”. Poi il combattimento contro il wrestler-punk con tanto di A cerchiata tatuata sulla schiena e, infine, il match epocale contro l’iranianeggiante “Ayatollah” (non a caso in Iran il film di Aronofsky è stato censurato per vilipendio alla bandiera). L’immagine degli USA che ne emerge è tutt’altro che accomodante o conciliatoria, insomma. Al tempo stesso, tuttavia, con questa immagine criticamente caricaturale convive un ritratto umano dolente e toccante, capace di rielaborare i segni critici in lineamenti biografici: Randy, ovviamente, è Rourke sotto mentite spoglie che torna sotto i riflettori e si mostra in tutta la sua scostumata, dissipata, fatiscente grandezza. Un doppio binario tra satira politica e risarcimento professionale che rende il film concretamente polisemico e, come si suol dire (male), “stratificato”. E qui arriva la seconda constatazione. Conformemente all’ambiguità di cui sopra, il trattamento stilistico elaborato da Aronofsky (che a prima vista sembra andare semplicemente a rimorchio dell’Ariete) è molto più sfumato e altalenante di quanto sembri. Se è vero che il partito visivo dominante è quello della prossimità epidermica, è altrettanto vero che di tanto in tanto la cinepresa prende le distanze da quanto mostrato. Ed è una distanza che fa senso. Basti pensare alla sequenza dell’infarto: appiccicata alle contusioni, lacerazioni e perforazioni del corpo di Randy finché resta seduto, quando questi si alza dalla sedia e si accascia al suolo, la cinepresa lo riprende con un’inquadratura più larga, osservandolo freddamente. Anziché crollare con lui o avvicinarsi pateticamente, la mdp si limita a registrare l’evento come se fosse l’inevitabile conseguenza della lotta permanente quale regola di vita. L’impressione che se ne ricava non è quella di compassione o preoccupazione per le sorti di Randy, ma di straniante, clinica oggettività. Discorso analogo per la sequenza dello “sclero” nel supermercato: a distanza affettatrice dietro il bancone, quando Randy si allontana lungo i corridoi tirando gomitate agli scaffali la cinepresa non gli sta addosso, ma lo tiene in quadro a distanza di sicurezza, mettendone in rilievo tutta la bizzosa irascibilità e tutta l’incapacità di percepirsi fragile. È proprio in questi scarti, in queste variazioni di contiguità tra cinepresa e personaggio che il ritratto trascolora in allegoria, l’empatia in antipatia, con tutte le sfumature intermedie a fare di The Wrestler una pellicola molto più articolata e stilisticamente mutevole di quanto possa apparire. Torna infine utile un rapido confronto con un film non troppo dissimile per traiettoria allegorica, ma decisamente meno complesso nella modulazione dei registri: Tony Manero. Rappresentazione cinematograficamente sTravolta di Pinochet, al protagonista della pellicola di Pablo Larraìn non è accordata alcuna concessione empatica. Raùl Peralta è un mostro di abiezione e prevaricazione, palese trasfigurazione di un dittatore che annienta e sciacalla i deboli e elimina subdolamente gli oppositori. Larraìn non gli concede neanche una misera soggettiva o una sola inquadratura compassionevole: Raùl è la quintessenza della sopraffazione e della megalomania. Diversamente dall’inflessibile rigore di Tony Manero, il film di Aronofsky gioca sui trapassi da un registro all’altro (empatico, caricaturale, agonistico, satirico, affettivo, drammatico, epico), configurandosi definitivamente come una ballata grottesca di vibrante, commovente varietà stilistica.

La trama è quasi archetipica, prevedibile (basti pensare a Il Campione di King Vidor). La materia filmica si dipana in modo lineare, lungo un percorso che solo alla fine, come Aronofsky ama, si fa quasi filosofico, con l’epica peckinpahiana degli sconfitti dalla vita che escono vincitori nel momento in cui accettano il loro destino fino in fondo. In realtà l’opera, insolitamente sobria per gli standard del regista (sia figurativamente sia contenutisticamente), lavora su altro, stando addosso a questo personaggio freak di Mickey Rourke come farebbero i Dardenne: dopo i titoli di testa con gli articoli di giornale che descrivono i fasti passati del wrestler, Aronofsky pedina a lungo la nuca di Rourke, passando dalle “stelle alle stalle” e rimarcando la ricerca estetica del suo quotidiano, non del suo straordinario. Entra, così, nel personaggio e il personaggio entra indissolubilmente dentro lo spettatore che vive in prima persona i suoi tuffi al cuore: quando incontra una figura speculare (la stripper), che gli “altri” riconoscono solo attraverso la finzione scenica e quando riesce a conquistare il cuore della figlia. Tutto all’insegna della tenerezza, non dei colpi sul ring. Il film è, anche, Mickey Rourke: come in Rocky Balboa, personaggio e attore si confondono perfettamente. Oltretutto, in quest’opera il personaggio “fuori dal mondo” tenta anche di mischiare rappresentazione e realtà.