Drammatico, Thriller

THE PRESTIGE

Titolo OriginaleThe Prestige
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Durata128'
Tratto dadal romanzo di Christopher Priest
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Londra fine ‘800. Robert Angier e Alfred Borden lavorano nella stessa bottega come apprendisti maghi ma, a causa di circostanze terribili, diventano concorrenti, rivali, nemici desiderosi di infliggersi reciprocamente la morte.

RECENSIONI

"Christopher Nolan, mantenuta la propria riconoscibilità nel progetto Batman Begins, e prima di girare il nuovo capitolo The Dark Knight, spezza la catena produttiva e torna all'antico con un thriller vittoriano, crepuscolare e inesorabilmente spiazzante. La pellicola che si accosta a Memento - plot spogliato e rivestito, tremende ellissi, momenti topici omessi e ripresi in flashback - è il racconto stravolto di una rivalità sanguinaria, che apre in sordina e poi infiamma la girandola indiavolata dei colpi di scena, uno dietro l'altro, e molla la presa solo all'agnizione finale. La critica, che vuole il regista ingabbiato sempre nell'esercizio di scrittura, mantiene un fondo di verità ma non cambia i termini della questione: se The Prestige sarebbe troppo scritto, risulta però scritto alla grande, da un tratto inquieto e affabulatorio oggi ai vertici del quadro americano di genere. Non manca peraltro il costante sottotesto dell'autore: l'Ossessione, stavolta il terrore di non sovrastare ma essere sopraffatti, è la sgradita compagna che segna il cammino dei protagonisti, nei loro percorsi occulti e in quelli palesi. Rimane coerente l'intento dell'opera, spiegato in apertura dall’eminenza grigia di Caine, di puntare forte sulla figura del prestigiatore costruendoci l'intero film che, alla pari di un'ardita esibizione, compone e scompone, costruisce e distrugge, mostra e nasconde; Nolan ci inchioda con virate fulminanti, rovesciamenti sfacciati, una regia dedita alla tenebra e all'anfratto, un cast totalmente di grazia - Bale non è minore di Jackman, cameo allucinante di David Bowie - che prende l'applauso a scena aperta.
Un gioco di magia.

Promessa, svolta, prestigio: per Christopher Nolan il percorso dell’illusione si articola in questi tre momenti. La sfida dell’autenticità, l’inganno del trucco, lo stupore della ricomparsa. Facile rintracciare nel corpo del film la triade ingannatrice, movimento quasi forzoso, obbligatorio. Quindi da evitare. L’avvertimento dei fratelli Nolan (era dai tempi di Memento che Jonathan non spalleggiava il fratello maggiore Cristopher) è chiaro e non dà adito a dubbi: “osserva attentamente”. L’enigma è meno misterioso di quanto sembri: l’artificio principe, quello dal quale tutti gli altri discendono, naturalmente è il cinema. Constatazione di un’ovvietà fastidiosa, quasi ingombrante, certo, ma suggerita dalle parole che Borden (Christian Bale) sussurra a un bambino perspicace: “Il segreto non fa colpo su nessuno, è il trucco che c’è dietro che conta”. Ed è il cinema, trucco per eccellenza, che permette ai fratelli Nolan di trasformare il romanzo omonimo di Cristopher Priest in un gigantesco spettacolo illusionistico, un enorme gioco di prestigio incardinato sulle risorse del linguaggio filmico. Stacchi, dissolvenze, angolazioni impreviste, montaggi alternati: la grammatica cinematografica (ri)diventa macchina dello stupore, dispositivo strabiliante, attrazione in bilico tra scienza e magia. La rivalità tra i due illusionisti londinesi Robert Angier (Hugh Jackman) e Alfred Borden non conosce tregua, ha i lineamenti dell’ossessione, dell’invidia, della vendetta: passioni che divorano, tormentano, squassano l’anima, che fanno smarrire i legami con la realtà. Complicato da un gioco di tranelli, specchi e raddoppiamenti, il feroce antagonismo tra Angier e Borden si tinge inesorabilmente di sangue, coinvolgendo, sullo sfondo di una Londra grottescamente fin de siècle, tutti i personaggi del dramma. Non c’è posto per l’amore o l’amicizia: tutto può essere usato per mettere in scacco l’avversario, la vita privata è anticamera dello spettacolo, officina in cui perfezionare i trucchi; le donne sono assistenti di scena o pubblico domestico; i collaboratori pedine da manovrare o artefici d’inganno a loro volta. In questa lotta senza esclusione di colpi – preferibilmente bassi – dove l’unica cosa che conta è la devozione alla propria arte, spiccano le figure “paterne” dell’ingénieur Cutter (un Michael Caine flemmaticamente premuroso) e dello scienziato visionario Nikola Tesla (David Bowie, altero e sfuggente), consiglieri e complici mai totalmente estranei alle tensioni psicologiche della vicenda. Meno incisive invece le figure femminili: se Piper Perabo è relegata al ruolo di moglie-meteora di Angier, i doppi giochi e i maliziosi voltagabbana di Olivia (la sovraesposta Scarlett Johansson) risultano scarsamente persuasivi, in una pletora di occhiate che si vorrebbero enigmatiche ma che in realtà degenerano vistosamente in overacting. Discorso diverso per Sarah (Rebecca Hall): pur dipinto come imperdonabilmente miope, il suo personaggio le permette di esprimere un’umanità immediata e una vulnerabilità che la sottraggono – anche fisicamente – al mondo di segreti e ipocrisie del marito. Il confronto tra Jackman e Bale si chiude invece in sostanziale parità: il primo sfoggia una presenza scenica e una statura carismatica indiscutibili, mentre il secondo impreziosisce la sua interpretazione di sfumature irrequiete e sotterraneamente cangianti. La scrittura filmica si rivela infine efficacemente controllata: dicevamo in apertura dell’uso illusionistico del linguaggio cinematografico, al quale va aggiunto un ricorso al flashback e alle distorsioni cronologiche calibrato al millimetro. Lungi dall’annodarsi in contorsioni funamboliche o in virtuosismi strappapplauso, il disegno narrativo di The Prestige è tortuoso senza essere vertiginoso, l’acronia di Memento e l’ipnagogia di Insomnia aggregandosi finalmente attorno a nuclei emotivi e drammatici strutturanti. Detto altrimenti, pur non rinunciando alla complessità dell’impianto temporale e alla parcellizzazione del sapere narrativo, The Prestige non si dimentica di dialogare col pubblico e conduce gradualmente lo spettatore in un percorso zigzagante ma non labirintico, accompagnandolo progressivamente nella scoperta di verità doppie e letali (l’unico limite del film forse risiedendo nell’eccessiva loquacità dello scioglimento, a rischio didascalia). Morceau de bravure: il montaggio alternato del prefinale. Fotografia sulfurea del fido Wally Pfister e musiche costanti dell’altrettanto fedele David Julyan.

I fratelli Nolan, di nuovo insieme, tornano ad appropriarsi del tempo. Ma stavolta non sono le manipolazioni cronologiche il vero motivo di interesse: lo erano in Memento, nel quale i due erano riusciti a dare consistenza non accessoria a una pratica cinematografica di destrutturazione temporale che rischiava già la saturazione. No. Nessun vezzo, in Memento, solo una questione di polarisation gardiesiana, di distribuzione del sapere finalizzata all'aderenza informativa personaggio-spettatore: l'uno non sa quello che è appena successo perché ha problemi di memoria breve, l'altro perché il film progredisce a ritroso. C'era dunque artificio ma non artificioso né 'inutile', solo necessario. Sia chiaro: in The Prestige la gestione dei flashback-flashforward è perfetta, funzionale a tenere costantemente desta l'attenzione dello spettatore, a farlo osservare attentamente, a rendere ancora più enigmatico (ma non confuso) un narrato fondato sul 'mistero', però non è questa la vera magia del film. No. The Prestige rivitalizza, restituendole dignità, l'ormai abusata pratica del colpo di scena shyamalaniano che impone, a posteriori, la rilettura e la ricodifica del film. E lo fa nell'unico modo possibile, visto il contesto: barando. Ingannando lo spettatore che, per quanto possa aver seguito l'invito iniziale (osserva attentamente) non saprebbe sciogliere da solo l'intreccio e prevederne gli snodi fino a che la sceneggiatura non decide che è il momento di mostrare i suoi prestigi svelando il trucco. Perché il trucco c'è. Non tanto la rivelazione della presenza di un gemello, in qualche modo preannunciata da una precisa serie di indizi ed esplicite dichiarazioni (il sosia come unica soluzione possibile), quanto la svolta magico/fantascientifica, quella è il vero trucco ingannatore del film. Variabile imprevedibile, la 'pura magia' della fantascienza, con le sua pressoché infinita duttilità, concede un'agile scappatoia per far combaciare tutte le tessere del mosaico. Agile, certo, 'facile', forse, ma dovuta: lo spettatore, in fondo, vuole essere ingannato.

L'ottima recensione di Pacilio mi spinge poi a un paio di (personali) puntualizzazioni interpretative: è senz'altro vero, come già aveva notato Baratti, che lo scioglimento può apparire didascalico e perfino ridondante e che dunque, in realtà, non sembrerebbero necessarie re-visioni e ri-codifiche analitiche. Ma il condizionale, come si dice, è d'obbligo, perché proprio lì sta il vero Prestigio, nonché il fulcro di un autentico ripensamento (rivitalizzante) del film enigma. La 'svolta fantascientifica' di The Prestige arriva relativamente presto e già a quel punto (scopriremo poi) non c'è altro da capire: la magica macchina di Tesla funziona davvero, anche se teleclona invece di teletrasportare. L'introduzione di questo snodo chiave mette però in guardia lo spettatore, per almeno tre motivi: 1) come appena detto, vi si giunge troppo presto ('storicamente', svolte del genere arrivano a pochi minuti dalla fine); 2) è un modo apparentemente semplicistico di risolvere l'intreccio, affidato al fin troppo comodamente plasmabile 'fattore fantascienza'; 3) è soprattutto la stessa sceneggiatura ad alimentare i dubbi (Tesla esce definitivamente di scena, si può ipotizzare un suo ingegnoso inganno; o si pensi alla sequenza di Angier che entra nel duplicatore e prepara la pistola, interrotta sul più bello -e 'completata' solo nel finale-. Tutto rimane sospeso, non definitivo). 1+2+3= si rimane col dubbio, in attesa di una nuova rivelazione, fino a quando non si realizza che in realtà la chiave è veramente quella della quale diffidavamo, che la definitiva svolta, dunque, c'è ma è in verità una non-svolta e che il Trucco del film era a sua volta truccato, camuffato da 'inganno apparente' - o meglio- inganno nell'inganno costruito in abisso. Lo spettatore vuole essere ingannato. 'Al quadrato' è anche meglio.

You're playing a part
Playing a part
And there's no time
There's no time
To analyse
Analyse - Thom Yorke

Come per Memento Nolan fonda The prestige su un'idea e una struttura forte (i livelli temporali inscatolati uno nell'altro, le deviazioni e le ipotesi narrative - la doppia versione dei fatti, si veda il primo incontro Johansson-Bale -, inganni&rivelazioni, il metacinema - il trucco-cinema truccato -): il guaio dei film di idea (e solo di idea) è che questa li esaurisce, l'opera le si asservisce e tralascia il resto. In The prestige si dimentica di dare sostanza all'adattamento (i dialoghi sono appena passabili, mediocri a tratti); si economizza sul disegno dei personaggi (la loro costruzione è limitata agli aspetti e alle situazioni che soccorrono la dimostrazione del teorema, sono paradigmi senza sangue - la moglie di Bale, per tutti -); si trascura la messinscena (piatta e senza un briciolo di inventiva).
Non si nega certo l'acutezza dell'assunto (in iniziale didascalia: l'uccellino che viene ucciso per la riuscita del numero teorizza da subito il necessario sacrificio del sosia/dei sosia - cento, addirittura - sul palcoscenico come nella vita) ma l'idea del doppio illusorio la si intuisce quasi subito (altro che revisione del film: è tutto talmente palese che guardarlo è già riguardarlo - parafrasando lo Yorke dei titoli di coda: C'è tempo per analizzare, altrochè) e l'esperienza diventa ovviamente rivelatoria della precisione di un congegno che funziona a dovere, mutuato com'è dal romanzo di partenza, ma anche della rigida meccanicità delle istanze narrative, alla fine tutte denudate sotto una luce impietosa, di chiaroscuri non rivenendosi alcuna traccia. Il guaio di un film come The prestige è che la sua elementarità cinematografica diventa tanto più palese quanto più si dimostra complesso e costruito l'impianto narrativo, impianto che sorregge un solo singolo aspetto del lavoro, latitando, come sempre e soprattutto, il Nolan regista (lo stesso Batman begins era, come questo, un film impersonale e privo di stile - penso alle sue mollicce scene d'azione -, ripiegato com'era sulla sua aneddotica barbosa, sulla sua dolente ma accademica lettura metaforica) che non ci risparmia le enfatiche 'entrate in scena' (si vedano le prime comparse di Johansson e Bowie), chiaro esempio (uno per tutti) di passivo ricorso allo standard, della limitata capacità di un regista che non ha una sua idea di cinema e che si rifà a rassicuranti luoghi hollywoodiani, di un corretto mestierante che non è toccato neanche per sbaglio dal dubbio dell'originalità: se si punta alla storia e si scandagliano le acque pericolose della verità e dell'inganno, se in più si azzarda una riflessione sul cinema avvertendo lo spettatore dell'esistenza di un inganno e costringendolo di fatto ad accettare una sfida, allora non si può ristagnare nel rassicurante canone perché il film sta mettendo in discussione se stesso. Ma Nolan, in aggiunta a quanto sopra, è anche un tipo accorto: ad Hollywood, in fondo, si vive bene
Yawn.

Un senso d'irritazione coglie lo spettatore all'esito del film: per far quadrare gli eventi in un tutto coerente, si deve accettare che il fisico Nikola Tesla (un David Bowie di mortifera cupezza) abbia costruito una macchina elettromagnetica per la duplicazione di qualsivoglia oggetto. L'improvviso scantonamento nella science fiction, e la conseguente infrazione del patto narrativo stipulato col pubblico, indicherebbero che Nolan ha sacrificato il rigore della costruzione alla brillantezza d'un colpo di scena. Eppure, quel finale rovescia il paravento della verosimiglianza e svela l'autentica natura del narratore, un bugiardo al quale ci si rivolge non a dispetto delle sue bugie ma al preciso scopo di esserne ingannati. L'autore contraddice il patto narrativo, ma così ne mette bruscamente a nudo l'essenza. Nell'epoca in cui si dichiara sepolta la lettura ingenua dei testi, perché lamentare la contravvenzione del regista alle regole della credibilità anziché esaltarne l'astuzia postmoderna che ci rifila un gioco di prestigio in un film sui giochi di prestigio? Ma neppure di questo si tratta, a nostro avviso; la taccia di disonestà levata contro il regista può effettivamente essere meritata; ciò che gli si imputa, in ogni caso, è di non aver ingannato bene; di aver lasciato trapelare un lembo di realtà (l'impossibilità d'una macchina duplicatrice) che fa cadere il gioco illusionistico. Questa, se si abbandona la lettura allegorica più comunemente data al film, si rivela una strada ricca di possibilità.
Il prestigio come allegoria del cinema; la rivalità fra un regista superbo creatore ma cattivo intrattenitore e un altro poco ispirato ma abile metteur en scène. L'interpretazione metatestuale ha i suoi diletti (e non è che l'autore non ammicchi in tale direzione), ma trascura altri segnali, tanto più significativi per il fatto di costituire delle ricorrenze decisive nel cinema di Nolan.
Il genio illusionistico del regista è quello di ogni affabulatore; parola e immagine sono pronte a darsi il cambio, e in The Prestige compaiono in effetti tre istanze narranti (e altrettanti piani cronologici, ma di tale complicazione non risente la comprensione dell'intreccio: non ultima virtù d'uno script eccellente): un narratore esterno e i due antagonisti; ebbene, i due racconti intradiegetici (i diari) sono espedienti rivolti al lettore-spettatore affinché questi si formi un'immagine della realtà. La funzione strutturante del racconto, la sua natura d'invenzione che dona forma e senso – per quanto illusori o dolosamente ingannevoli – al reale, è da sempre interesse precipuo di Nolan, e prende corpo in opere la cui diegesi - lo ricorda Pelleschi nel suo commento - è significante dell'effettivo contenuto del film: una messa in chiaro dei presupposti teorici può a tal proposito considerarsi Memento, che inscena la conversione dei fatti in racconti e interpretazioni, e l'ossessiva presenza di una volontà di sapere che genera il reale mentre crede di trovarlo.
I dubbi sulla natura di quel che chiamiamo “realtà” sono un denominatore comune del cinema odierno: il mondo come crediamo di vederlo è un imbroglio. Ma Nolan non si limita a ripetere l'ovvio col clamore d'un film raffinato e incalzante, servito da attori infallibili tra i quali spiccano la tranquilla forza di Michael Caine e il talento sempre più introverso e oscuro di Christian Bale. Richiedere l'abbandono delle illusioni, anziché sguazzarvi dentro; è questo scarto concettuale a separare Nolan da un cinema come quello dei Wachowski, che innalza altari pseudo-dickiani all'obliterazione fra virtuale e reale. La realtà è la migliore apparenza di se stessa, così suona il valzer dei nostri anni. Ma solo l'illusione in cui amiamo cullarci può decretare che il risultato di questo processo di ipostatizzazione del “punto di vista” sia la sparizione della realtà oggettiva. In The Prestige, non c'è nulla di così reale come l'uccellino che resta schiacciato dalla gabbia con cui l'illusionista diverte (in senso etimologico) gli spettatori; e non c'è nulla di così evocativo come il cappio che stringe il collo del protagonista. Il grottesco rituale della giustizia e quello seducente della finzione possono nascondere l'assassinio, non già cancellarlo: il virtuale regredisce, il simbolico diventa concreto, il segno torna a indicare l'oggetto.
Anche le figure della frammentazione dell'io sono divenute negli anni tanto consuete da costituire un ingombrante luogo comune: la prima persona, un tempo appiglio roccioso dell'identità, è diventata una persona. In questo disorientamento epocale, le rappresentazioni del sé riproducono la situazione già definita come simulacriale: immagini non rappresentative in quanto prive dell'originale. Nessun essere profondo sarebbe dissimulato dal velo delle apparenze; Nolan conosce e rispetta l'impasse, ma non resta schiavo dei sofismi. Memento è la storia del tentativo di ricostruire un'identità attraverso un sistema di dispositivi suppletivi e un filo ideologico (“io sono il giusto, il vendicatore”) che connetta fatti e persone immaginando un sistema di relazioni umane; in Batman Begins il conflitto tra soggetto e mondo induce il protagonista a proteggersi dietro una maschera, poi a identificarvisi emarginando il proprio io pregresso. Se il maggiordomo parla di persona, alla latina, riferendosi all'uomo pipistrello (“I assume that this symbol is a persona to protect those you care from reprisals”), più tardi l'amica di Bruce gli confesserà di non poterlo più amare perché “I found out about your mask. Your real face is the one that criminals now fear. The man I loved never came back at all”.
Attraverso una scrittura meno ostica di quanto fosse in Memento, e più complessa rispetto all'efficace schematismo di Batman Begins, Nolan propone oggi una variante del medesimo leitmotiv; ancora una volta, il corpo dell'uomo vi subisce una sorta di espropriazione. Il corpo si fa testo (o immagine) che consente di attribuire un significato al mondo e all'io nell'inerte continuum dell'esistenza. L'immagine d'un corpo gioca il ruolo di documento apparentemente irrefutabile, ma tale solo in virtù di una petizione di principio che può essere messa in crisi o contraddetta da una più acuta interpretazione.
Non è poi un caso ma un indizio di sfiducia, se le interpretazioni esatte sono il frutto di intuizione empatica o psicologica anziché di razionali illazioni: giungono infatti dal bambino spettatore d'un gioco di prestigio e da Sarah, vittima del drammatico gioco di prestigio apprestatole dal marito. La verità celata dalle apparenze può essere insopportabile, ma possiamo perciò esimerci dall'osservare meglio? È questo - al di là dei possibili intendimenti del suo autore - l'autentico dilemma di The Prestige, non il segreto di Alfred Borden già dolorosamente evidente a un terzo del film, e senza che Nolan si mostri intenzionato a opacizzarlo onde trasformare in un colpo di scena l'agnizione conclusiva.