TRAMA
1675: Carlo II chiede all’iconoclasta John Wilmot di scrivere per il Regno un’opera degna di Shakespeare, assumendosi delle responsabilità nei confronti della difficile realtà politica.
RECENSIONI
Condannato a recitare se stesso
Prodigioso il testo teatrale di Stephen Jeffreys, anche sceneggiatore, portato sulle scene dallo Steppenwolf Theatre con Malkovich nel ruolo qui affidato a Johnny Depp, maschera perfetta del poeta maledetto, strafottente, cinico e mesto. Per farne cinema viene chiamato alla regia un regista di spot e videoclip che, se non trascura la forma e ruota continuamente la macchina da presa, non sempre sa alleggerire il fiume contorto di parole e rimandi (ma regala un’inquietante, meravigliosa e fosca sequenza orgiastica in St. James Park). L’opera è aperta e chiusa da una brechtiana quanto mendace dichiarazione di intenti del “Libertino”: nonostante quanti sforzi faccia, John Wilmot non riesce ad esserci antipatico, le sue provocazioni sono figlie di una rabbiosa voglia di verità, la sua amoralità è tremendamente morale, il suo libertinaggio capace d’immenso amore, la sua melma esistenziale il megafono di un Regno nel Fango (sottolineato dall’indimenticabile fotografia sgranata di Alexander Melman, fra pantani e nebbia, lusso e lussuria). Senza compromessi, vive il vizio con la disperazione di chi tampona il patire con le passioni e lo stordimento, infischiandosene d’etichette e Re (complesso il rapporto impertinente con il Sovrano), con atti di coraggio spropositati (lo scherno dei potenti dopo la fallica rappresentazione ken-russelliana) e ambigua codardia (la confusa scena dell’omicidio), infine di ritrovata responsabilità (alla Camera dei Lord). L’opera finisce anche con l’essere un autodistruttivo atto d’amore alla Rappresentazione in genere: Wilmot riesce a provare emozioni solo a Teatro, luogo del Senso, del Dramma Coerente. Il finale pone in parallelo la sua vita vera accanto alla moglie premurosa che lui trascura e quella rappresentata con l’attrice che lui ama non (più) ricambiato. Wilmot vorrebbe un epitaffio che reciti “Era l’unico a saper fottere, bere e scrivere poesie contemporaneamente” e si ritrova un amarissimo “Condannato a recitare se stesso, beffato dalla teatralità della vita”.