TRAMA
Una visione romantica e musicale della vita di Phineas Taylor Barnum, protagonista dello show business americano del XIX secolo.
RECENSIONI
«There's a sucker born every minute», pare abbia detto un dì nel pieno Ottocento industriale americano l’imprenditore circense P. T. Barnum, co-fondatore insieme all’ex-rivale Bailey della Barnum&Bailey Circus, compagnia itinerante che presentava al pubblico The Greatest Show on Earth, Il più grande spettacolo del mondo. Per un equivalente italiano, si potrebbe tradurre con il noto e perfino più sgradevole “la madre dei cretini è sempre incinta”; e chi sono questi cretini? Gli spettatori, naturalmente. Nella sua versione illanguidita, l’aitante Barnum-Hugh Jackman ripropone il tema della creduloneria e dell’imbroglio, giocando sull’ambiguità che fa della prima una disposizione a guardare con occhi di bambino e della seconda un inganno buono che regala sorrisi a grandi e piccini. In effetti, Barnum non regala nulla, anzi la sua impresa -nel senso imprenditoriale- frutta abbastanza da valergli l’agognato riscatto sociale. E qui sorge un’altra ambiguità: era per l’amata Charity-Michelle Williams o per se stesso che desiderava assurgere ai salotti altolocati e perfino fare battute di spirito al cospetto della Regina Vittoria? E la splendida Jenny Lind-Rebecca Ferguson, cantante “talented” come un usignolo, è un’innamorata ferita o una spregiudicata potenziale amante che cerca l’intesa con Barnum nella comune estrazione sociale? Tema riproposto anche nell’amore -a primo sguardo sospeso nel vuoto- fra la trapezista Zendaya e Zac Efron, in un ralenti efficace seguito poi da un duetto semi-aereo fra corde e contrappesi, forse il numero migliore del film, che non vanta grandi coreografie, ma è forte dei movimenti di macchina performanti, di un montaggio che accentua la cinesi dei corpi e accelera a tratti la storia fin quasi a farne sommario, culminando nella svolta del tendone, trovata decisiva che rimette in moto il meccanismo con un implicito e volitivo “the show will go on”, lontano dai drammi di un “must go on”: il circo riparte fuori città, dalle macerie di un teatro incendiato e diventa arte (?) itinerante; morto un Moulin Rouge se ne fa un altro e un tocco luhrmanniano non manca all’esordiente Michael Gracey, conterraneo di Baz, ma siamo ben lontani da quell’empatia con storie e personaggi frizzante, lirica e visionaria che non era performance, ma riscrittura, secondo le regole di un universo personale che chiedeva di esserne dentro o fuori.
The Greatest Showman, sospeso sul filo dei suoi temi abbozzati, offre a tutti un po’, compreso un po’ di rapporto showman sognatore-critico tedioso e moralista stile Birdman, un po’ di La La Land (stessi compositori per la scrittura dei testi, ma partitura altrui), un po’ di The Prestige senza il prestige, non solo perché lo stupore è più dichiarato che effettivo, ma perché alle spalle del Barnum sognatore, c’è pur sempre l’ombra dello spregiudicato personaggio reale di cui si conserva, nella generale edulcorazione, il principio dell’accontentare tutti che lo psicologo Paul Meehl chiamò proprio “effetto Barnum” e che il collega Forer verificò in sede sperimentale come capacità di fornire a una moltitudine un pacchetto così generico di proposte da rendere possibile a ciascuno identificarvisi (è il principio dell’immedesimazione nei profili generali degli oroscopi). Emerge il tema del circo come grande famiglia per reietti che trovano la propria identità nel mostrarsi per quel che sono; che sia un freak show o meno, è un’affermazione di sé (ce lo ripete a piena ugola la Donna Scimmia Keala Settle) e la questione del diverso e del difforme (esposto? Nascosto? Ghettizzato?) giunge parallela al concreto e pedagogico Wonder, ma mentre quest’ultimo poggia sulla pluralità dei punti di vista, The Greatest Showman perna sul sogno individuale, a partire dal titolo che trasforma lo “show” Barnumiano nello “showman”- Barnum.
Il più grande spettacolo del mondo di Ringling Bros. & Barnum & Bailey Circus, che ispirò anche l’omonimo film di De Mille del ’52, ha tolto le tende -è il caso di dire- nel maggio del 2017, dopo 146 anni di tournée.
I tempi sono cambiati, il pubblico è cambiato, la sensibilità verso il mondo degli animali, grandi protagonisti dello show circense, è cambiata. Nonostante la causa per maltrattamenti sia stata vinta per infondatezza delle accuse dalla Feld Entertainment, nuova proprietaria del circo di Barnum, gli elefanti sono stati eliminati dallo spettacolo. E che circo è senza i maestosi elefanti? In The Greatest Showman, ne spicca uno bardato nella neve, finto: tutti gli animali presenti, ben pochi peraltro, sono in CGI (la PETA ha tuttavia protestato contro la visione romantica di quello che ritiene essere stato un gigantesco meccanismo di sfruttamento). La storia reale si è comunque conclusa puntuale per l’uscita del film.
Resiste invece, reinventandosi e dedicandosi anche al trattamento etico degli animali, il circo di Moira Orfei, the Greatest “Showoman” della storia circense italiana e attrice con una fitta filmografia, incluso un documentario. Chi girerà un film su di lei?