Drammatico, Fantasy

THE FALL

Titolo OriginaleThe Fall
NazioneU.S.A./ India
Anno Produzione2006
Durata117
Tratto dadalla sceneggiatura del film 'Yo Ho Ho' di Valery Petrov
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Los Angeles, 1920. Roy e la piccola Alexandria si conoscono in un ospedale, dove sono entrambi ricoverati per una caduta.

RECENSIONI

Il mondo-set di Tarsem

Tarsem, regista di video musicali celebrati (Losing my religion dei REM, agevole sintesi della sua poetica visiva), reduce da The Cell, insegue per anni il progetto di The Fall e, complici due ex videoclippari come Spike Jonze e David Fincher, riesce nel’intento di portarlo a termine. Frutto di sforzi produttivi indipendenti, remake del misconosciuto Yo ho ho del bulgaro Zako Heskija, divenuto subito un oggetto cult (per quanto o perché distribuito in modo discontinuo), The Fall costituisce un passo in avanti rispetto al precedente lungometraggio.
Nettamente bipartito (come, in fondo lo era The Cell), The Fall, nella sua parte reale, è ambientato in un ospedale losangelino negli anni Venti: Roy, un giovane paziente immobilizzato, irretisce una bambina, Alexandria, manipolandola perché questa le procuri le pillole necessarie per mettere la parola fine alla sua vita. Chi sono questi due personaggi ce lo rivelerà la favola che il giovane va a narrarle, accogliendo le osservazioni e i desiderata della sua infatuata ascoltatrice. Il racconto, infatti, gradualmente ingloberà elementi delle esistenze reali dei due (la fine della love story di Roy, la mancanza del padre di Alexandria), divenendo palesemente lo specchio metaforico di una situazione di vita vissuta, di un trauma fisico che non si accetta, di un dramma amoroso da elaborare, di un conseguente istinto al suicidio da gestire. A metà tra psicodramma e favola terapeutica, tra vivace intrattenimento e cosciente strumento persuasivo, la storia di Black Bandit che vuole uccidere il perfido Odious accoglie frammenti di vita, momenti visionari (Roy prende morfina), ingenui snodi (la bimba che interviene nella trama), risvolti tragici (quando la depressione diventa imperante e la voglia di farla finita, in ogni senso, prevale).

Non tutto funziona, la fiaba, indecisa tra avventura filosofica e melodramma svenevole, tra piglio adulto e languidezza infantile, ristagna alquanto, trascinandosi verso il bel finale che chiude il cerchio su una meditazione sul mezzo cinema realmente inaspettata: la storia dello stuntman che diventa protagonista di un film mentale in cui sconfigge il suo rivale (l’attore di cui è body-double) e, sprezzante, rifiuta il ritorno della donna che lo ha lasciato, si scopre metacelebrazione del cinema delle origini (ricorso contenutissimo a manipolazioni digitali in questo film), manifesta negazione della centralità dell’attore (il dominio della rappresentazione sulle individualità interpretative è totale), trionfo dello spettacolo in celluloide alle porte (chiuse) di Hollywood.

Nonostante la sua discontinuità  The Fall si fa apprezzare per il sano spingere sul tasto immaginativo, per la celebrazione del gran gesto visivo che, senza temere una certa affettazione, costituisce il nocciolo del film, tutto proteso a magnificare la figura.
Si apprezzino allora gli immaginifici piani lunghissimi, il sontuoso lavoro sulla composizione, lo spudorato citazionismo pittorico (Dalì a palla: gli assurdi accostamenti, gli accesi cromatismi, la scena come rappresentazione psicanalitica, gli illusionismi visivi), tutto quello che da un lato fa postmoderno d’accatto (manca, tanto per essere chiari, il discorso di profonda coscienza ri-significativa di un Greenaway) e dall’altro si converte in sprazzi inventivi di indubbio fascino (compresa la bellissima sequenza del delirio in stop motion curata dai fratelli Lauenstein), anche perché il film con un colpo di coda ne riesce a prescindere e, proprio quando sembra risolversi in una gelida raccolta di mobili quadri icastici, ha un’impennata di senso tale da far rivalutare il suo tedioso svolgimento. Né va sottovalutata la tendenza a limitare quello artificiale, per prediligere uno scenografismo reale: il nostro pianeta è un posto bellissimo in cui girare, sembra dirci l'autore, che sceglie una serie di location riconoscibili (The Fall è stato girato in diciotto Paesi diversi), facendone il laccato sfondo su cui far stagliare le figure che animano la vicenda. Il mondo-set di Tarsem, insomma, se da un lato ci riconduce a un certo kitsch cartolinesco, dall’altro lato si innesta ancora una volta in un discorso di impudico, ostentato semplicismo che diventa riconoscibile cifra, stante la pregiata maestria con il quale l’autore si decide a utilizzarlo.

Se The Cell sembrava mescolare con disinvoltura un po’ becera e parecchio spocchiosa Cronenberg e Hirst, Giger e Stelarc in uno psycho thriller  di forma ricercata e concezione scricchiolante, qui il tono si abbassa e, complice la migliore combinazione con una narrazione più elementare e pretestuosa, il regista riesce a dare forma compiuta alle sue (in)sane fisse visive. Insomma, nonostante le furbizie, gli evidenti debiti (Baraka di Twike viene letteralmente saccheggiato – il rito del chakachak, solo per fare un esempio, è riproduzione quasi letterale -, un bel po' di Parajanov, tanto Jodorowsky), il virtuosismo estetizzante, il lavoro di Tarsem si libra più leggero, meno saputello e decisamente più funzionale all’apparato complessivo di un film che potrà apparire anche stucchevole, ma che ha l’indiscutibile merito di non passare inosservato.

Era ora che il genio visionario di Tarsem tornasse al cinema dopo The Cell: per poterlo fare, il regista s’é praticamente auto-prodotto e, con grande ingegno, ha sfruttato le pause di lavorazione in giro per il mondo fra uno spot e l’altro. Prende a prestito la trama del bulgaro Yo Ho Ho (1981) per, mirabilmente, intrecciare con semplicità raffinata un racconto fiabesco e il “dramma” della realtà, dove i personaggi della finzione nella finzione si specchiano con quelli “reali”, mentre lo stesso protagonista lavora nel cinema, nel cinema è “caduto” e Alexandria, per amor suo, al cinema tornerà. Stesso procedimento utilizza a livello iconografico: a parte il prologo, sorta di elaborato commercial in bianco nero per fare cinema ripreso “dietro le quinte” (sogno di sogno nel sogno), sfrutta le bellezze naturali e architettoniche dei paesi esotici (il Rajasthan, soprattutto), in modo meravigliosamente evocativo, fra Lo Spirito dell’Alveare e (ancora) nel segno di Paradzanov, andando oltre (il Tarsem’s touch) con preziosismi e tableaux vivants magistrali. La piccola protagonista, paffutella è birichina, è perfetta come soggettiva che renda ancor più intrigante questo gioco di specchi: scambia l’eroe della fiaba per suo padre morto, per poi identificare quest’ultimo con lo stuntman.