TRAMA
Un uomo la cui esistenza sta andando a rotoli riversa tutto il suo entusiasmo nel tifo smisurato per un giocatore di baseball; ben presto egli riesce ad insinuarsi nella vita del suo idolo.
RECENSIONI
Lo psicopatico della porta accanto, il delirio che spunta poco a poco dalla normalità. Il più comune degli uomini scende in poche scene tutti i gradini del fallimento esistenziale (divorzio, perdita del lavoro, un rapporto quasi impossibile con il figlio che l'ex moglie gli impedisce di vedere) ed approda, uno scatto di nervi dopo l'altro, all'ossessione incontrollabile. Oggetto delle sue attenzioni sempre più smisurate è un campione di baseball, un mito non più solo dal punto di vista sportivo ma anche umano. Viene così ben descritto il ruolo del tifo nelle esistenze più o meno vuote di tanti individui: riscatto, vittoria, motivazione, proiezione. Il campione idealizzato è in principio intoccabile, amato; in seguito demolito e perseguitato con furia pari alla passata venerazione. Segno della delusione che si prova vedendo dissolversi un'immagine creata in prima persona. Il film inizia delineando abbastanza bene questo processo e la personalità deviata del protagonista. Nel momento in cui esplode la follia omicida la tensione raggiunge probabilmente l'apice troppo rapidamente, tanto che qualunque cosa possa accadere dopo non riesce a stupire. E' questa prevedibilità (compresa quella del finale) che toglie in parte mordente ed interesse a tutta la fase delle persecuzione. La violenza viene inoltre resa in modo un po' troppo confusionario (per le scelte registiche ma anche per l'accompagnamento musicale). Se non ci si aspetta di uscire dalla visione stravolti si può anche trovare l'intrattenimento soddisfacente e meno superficiale della gran parte dei thriller psicologici. De Niro ci ha abituati ai suoi personaggi molto sopra le righe, ma la sua recitazione rimane anche in questo caso notevole. Snipes resta invece un po' in ombra.
“Regaliamoci un sogno”, urla il carattere di Robert De Niro al suo idolo: il baseball è, di nuovo, veicolo del “sogno americano” nel cinema hollywoodiano e il rappresentante di coltelli, in principio idealista ed onesto, è la sua nuova vittima che, previo crollo delle certezze e facoltà mentali, trasferisce ed identifica le proprie disillusioni con lo scarso rendimento dell’idolo sportivo. Il suo gesto disperato è insieme tragico e simbolico e il film di Tony Scott (che bazzica spesso l’ambiente sportivo), sceneggiato da Phoef Sutton, si regge sull’intrigante, non manicheo equilibrio fra demonizzazione dello psicopatico corredato da fanatismo sportivo e giustificazione della rabbia o, quanto meno, comprensione (agevolata dall’altro fanatismo, quello per Mick Jagger, che regala Rolling Stones D.o.c. come “Sympathy for the devil”, “Gimme shelter”, “Start me up” e “Shattered”). È curato, di conseguenza, anche il parallelo tra fan e idolo, entrambi separati con figlio, perfezionisti e in fase negativa della propria esistenza: la crisi subentra quando le rette divergono, reagendo in modo differente alle difficoltà. Chi “resta indietro” non comprende, il mondo gli crolla addosso, passa dalla parte del torto, ma il film non dimentica di mettere alla berlina sia queste “star” super-pagate, viziate ed ingrate verso il proprio pubblico, sia le ingiustizie della pantomima sociale, che addita la violenza ma non la snida in tutte le sue forme (la pericolosità del capo dei rappresentanti). Tante buone premesse che ingannano sulla vera natura dell’operazione, sostanzialmente effettistica (il colpo di scena dell’arbitro, la partita “per la vita”), con l’attore Robert De Niro in ribasso come Bobby Reiburn, nel senso che rifà il verso a se stesso in Taxi Driver (il tema portante e la figura del maniaco sono i medesimi), condendolo con il fanatico di Re per una Notte, altrettanto bisognoso di protagonismo “oltre la legge”. Sempre bravo, per carità, ma “convenzionale” come questo thriller che tarda ad abbracciare la tensione per poi rivelarsi tanto plateale quanto ben realizzato. Strano anche che Scott, di solito inappuntabile a livello “tecnico” (nel senso di drammaturgia efficace, di figuratività che veicola le emozioni), sbagli due scene fondamentali come quella dell’omicidio del giocatore e del quasi-annegamento del bambino (confuse, poco trasparenti). Non male, però, l’idea dell’assassinio “in flashback”.