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KILLERS OF THE FLOWER MOON

TRAMA

Negli anni Venti, alcuni membri della tribù di nativi americani Osage, della contea di Osage, in Oklahoma, vengono assassinati dopo che del petrolio viene trovato sulla loro terra. L’FBI decide di indagare.

RECENSIONI

Can you find…
- DOMANDE - 

È una domanda il perno attorno a cui ruota Killers of the Flower Moon. Una domanda contenuta in un libro che invece dovrebbe dare ad Ernest Burkhart soltanto risposte, fatti e certezze sulla storia e lo stile di vita della tribù Osage. E ancora, è una domanda che viene fatta al lettore e naturalmente allo spettatore, al quale si chiede, con la semplicità e la trasparenza delle regole di un gioco della settimana enigmistica o di un libro per bambini (gli stessi che, nel prologo, osservano il rito con cui viene seppellita la pipa), di guardare. Guardare bene, guardare a lungo; guardare per arrivare ad un risultato, guardare per trovare qualcosa: «Can you find the wolves in this picture?». La traduzione italiana, pur sacrificando l'ambiguità del caso (picture può ovviamente riferirsi anche al motion picture, al film stesso), pone giustamente l'accento su un aspetto finalmente cruciale: le immagini. «Riesci a vedere i lupi in questa immagine?». E quindi: sei (ancora) in grado di guardare davvero? Il senso di Killers of the Flower Moon è il senso del cinema: osserva le immagini, osservale a lungo, rispettale, mettile in discussione, crea con loro un dialogo sempre attivo; cerca i lupi.

…the wolves…
- LUPI -

Di uomini e lupi dunque, ancora una volta. Come in The Irishman (il quale, ora è evidente, sembra aver definitivamente inaugurato una nuova fase nel percorso dell'autore, la più malinconica, funerea e autoriflessiva), Scorsese qui ribalta di segno una delle figure centrali della sua filmografia, girando un altro gangster movie privo di tutta la fascinazione per la vita criminale tipica del genere. I lupi di Killers of the Flower Moon non sono Quei bravi ragazzi della New York degli anni '60 e '70 o i gestori dei Casinò di Las Vegas piazzati dalla mafia negli anni '70 e '80; ma non sono neppure i broker strafatti di cocaina pronti a contendersi il mondo a suon di vendite e truffe, lupi di Wall Street nella Manhattan al tramonto degli eighties. Nessuna ambiguità possibile, il male (criminale e morale) non è una tentazione, non c'è più nessuna gloriosa esibizione di potere, soltanto l'inquieta ossessione della sua ricerca. Il passo qui si fa mortifero e i virtuosismi tipici del regista (il longtake nella casa, a mostrare la convivenza diabolica degli uomini bianchi con le mogli Osage) non sottolineano più l'estasi dell'ingresso nel mondo criminale condensata, per esempio, nel Copacabana di Quei bravi ragazzi, ma si chiudono con ineluttabili presagi di morte (la visione del gufo da parte della madre di Molly). Ancora, «Can you find the wolves in this picture?»; i lupi sono ovunque, la morte è onnipresente e cadenzata come la punteggiatura nel racconto, e la sequenza del primo ingresso di Ernest in casa di Molly - girata utilizzando una breve soggettiva che si sovrappone agli occhi di lui e che sa cogliere lo sguardo diffidente della madre - chiama nuovamente in causa lo spettatore, identificando apertamente il suo sguardo con quello del lupo. Sei ancora in grado di guardare davvero?

Per Scorsese però è anche, sempre, una questione di corpi, immediatamente riconoscibili e ampiamente storicizzati, di narrazioni costruite attorno a figure attoriali capaci di veicolare senso e di riempire i vuoti attraverso la loro semplice presenza. Nella rilettura puntuale del ruolo dell'attore, nella libertà di reinterpretare completamente la portata dei due volti che hanno contribuito a rendere così importante la sua filmografia, Scorsese in Killers of the Flower Moon sembra fare con DiCaprio quello che in The Irishman faceva con De Niro: lo rende figura altra e mai così debole, profondamente trasformata rispetto ai significati naturalmente innescati dalla sua presenza, eppure sempre in grado di dialogare con essi. Nel film del 2019 era la casa di riposo, la tematizzazione della vecchiaia dell'attore e la manipolazione digitale dell'immagine di De Niro per ringiovanirne le fattezze, e quindi lo straniamento del corpo che si faceva pietra tombale su un genere da sempre dominato dalla sua immagine. Qui invece, un lupo manipolatore (The Wolf of Wall Street) diventa un uomo manipolato da chiunque; un essere fragile in cerca della sua identità nell'America del trauma e del senso di colpa del post-11 settembre (The Departed, Shutter Island) si trasforma in individuo meschino e schiacciato dal peso dell'identità altrui; un uomo dalle ambizioni più grandi della vita, capace di dominare la Storia nonostante le sue debolezze e ambiguità e di guardare sempre al futuro (The Aviator) diventa un burattino del male perpetrato dal luciferino William Hale; un infiltrato in cerca di vendetta spazzato via dalla nube degli eventi (Gangs of New York) cambia completamente obiettivo per farsi infiltrato per avidità, incapace di sottrarsi dalle maglie di una figura (paterna e non troppo dissimile dal macellaio di Daniel Day-Lewis) da cui però non riesce e non vuole emanciparsi; anch'egli rimosso, questa volta con diabolica consapevolezza, dalla grande narrazione della Storia. 

…in this picture?
- NASCITA DI UNA NA(RRA)ZIONE - 

Nel suo guardare apertamente nell'abisso, nel voler tornare alle origini del capitalismo, dell'avidità e del razzismo che stanno alla base di un certo sentimento americano, è proprio a Gangs of New York che sembra guardare in prima battuta Killers of the Flower Moon. Oltre alle già citate assonanze narrative e alla grandeur della messa in scena e della ricostruzione storica (spazi quotidiani, aperti e chiusi, così pieni di corpi, vivi perché popolati da personaggi e comparse e filmati in quel modo, sono una rarità nel cinema contemporaneo), entrambi i film si inseriscono nel filone dei titoli che hanno il dichiarato obiettivo di disegnare una feroce rilettura della storia americana, con l'intento di rivelarne le tragiche fondamenta. E ancora, è sempre il western il grande fuori campo, lo spettro che da un lato rende piuttosto anomalo un film sul mito della fondazione ambientato in un contesto urbano a metà dell'800 e dall'altro invece ripropone, in un altro contesto e con altre dinamiche, l'eterna storia di supremazia bianca nei confronti di una tribù di nativi americani. Di più: nel concentrarsi così tanto sul personaggio di Molly (Lily Gladstone, straordinaria), sulle sue sorelle e sul meccanismo del matrimonio come affare economico, la vicenda assume anche i connotati più precisi di una supremazia bianca maschile nei confronti del femminile, una prevaricazione che si sviluppa ancora una volta attraverso la manipolazione e la menzogna.

Tuttavia, se nel film del 2002 la costruzione, per quanto straordinaria, era perlopiù dimostrativa (l'America è nata nelle strade) e volta a mettere in scena la vicenda in modo trasparente, Killers of the Flower Moon, in linea con quanto già detto a proposito di questa nuova fase nella filmografia dell'autore, pone il discorso su un piano estremamente autoriflessivo e metanarrativo. In altre parole, lì la nascita di una nazione, forgiata anche su ideali violenti e razzisti che oggi cerca di nascondere; qui la nascita di una narrazione, ovvero il modo in cui quegli ideali vengono malcelati, rimossi sistematicamente dalla Storia al fine di mantenere una posizione di egemonia, fantasmi poi sublimati in svariate forme di intrattenimento. Sta anche qui il senso della durata straordinariamente importante di questo e del precedente film di Scorsese (non a caso, gli unici due prodotti da piattaforme), un elemento che è fin troppo facile relegare nella sfera - buona un po' per tutte le stagioni - del delirio d'onnipotenza, mentre invece rivela un'acutezza e un'attenzione nei confronti di quelle che sono le modalità di narrazione del presente senza eguali. I 206 minuti di Killers of the Flower Moon sono infatti serratissimi e magistrali da un punto di vista meramente narrativo, non si concedono pause o divagazioni autoreferenziali non richieste e in questo sono anche - ancora - una richiesta di rispetto per la visione; guarda bene, guarda a lungo. Guarda le immagini, dai loro il giusto peso, dai loro il giusto tempo. È un principio diametralmente opposto rispetto all'immediatezza della serialità e invece vicino, come accade spesso con il cinema del regista di New York, all'universalità del grande racconto americano, capace di trovare quell'ampiezza di respiro necessaria a sostenerne le ambizioni e ad essere, allo stesso tempo, classico e contemporaneo.

In quest'ottica, il finale - il più bello dell'anno e tra le vette del cinema di Scorsese - è naturalmente la chiave di lettura dell'intera operazione e ci ricorda ancora una volta che in America qualsiasi cosa - dalla vita di un pugile alla tragedia di un popolo - diventa infine racconto popolare, divertimento per le masse, pubblicità di sigarette. «That's entertainment!», per dirla col Jake LaMotta di Toro Scatenato. La rassegnata consapevolezza di essere parte di questo sistema è ciò che porta Scorsese a salire sul palco, ad esporsi come mai prima d'ora nel dare senso attraverso la sua presenza, per leggere un necrologio che è allo stesso tempo una richiesta di perdono e un'ammissione di responsabilità. La vertigine del gesto, che conduce la rappresentazione su un diverso piano della realtà e spalanca la porta dell'interpretazione (il radiodramma, che è racconto in assenza dell'immagine, si fa cornice naturale di quanto abbiamo visto), è ancora una volta la vertigine del cinema, capace da un lato di costruire immagini e racconti in grado di rendere visibile il rimosso della Storia e dall'altro di farlo soggiacendo alle perverse logiche dell'intrattenimento. Nel disvelamento in prima persona di questa diabolica tensione, nel significato di una vita condensato in un'immagine, il senso di un capolavoro. 

Ciò che da sempre fa di Martin Scorsese un cattolico inquieto, è la prossimità dell’ebraismo. “Prossimità” qui va inteso in molti sensi, molti di essi intrecciati tra loro. Non c’è dubbio: a inquietare il regista italoamericano è, più di tutto, il sospetto che nel rifiuto dell’incarnazione ci sia qualcosa di più cristiano del cristianesimo stesso. Ma può essere una questione solo teologica una questione che fin da bambino Scorsese vedeva incarnata nelle lotte dell’una e dell’altra etnia per spartirsi il territorio newyorkese, e che poi sublimerà in Casinò e, meno direttamente, in tanti altri capolavori?
In effetti, il lato squisitamente teologico della questione è già stato risolto definitivamente in Silence, film in cui Scorsese fa pace con l’ebraismo (senza mai citarlo) andando a fondo della categoria di “tradimento”, categoria che è al cuore di ambo le religioni e che lì diventava uno strumento per tracciare una linea divisoria che non era rassicurante senza essere allo stesso tempo paradossale. Fin lì, l’ebraismo Scorsese aveva cercato di esorcizzarlo nel più rassicurante dei modi, ovvero servendosi di Kafka. Ma il kafkiano Fuori orario riusciva ad essere un remake di Taxi Driver in forma di commedia (come era del resto Re per una notte appena prima) solo corteggiando un equivoco che rimarrà addosso a Scorsese per una parte non piccola della sua carriera: l’equivoco dell’individuo inerme vittima del sistema. Certo, non è difficile cadere in quell’equivoco portando Kafka al cinema: persino Orson Welles, con il suo Processo, lo dribbla solo intrecciandolo alla propria, squisitamente idiosincratica automitologia di perseguitato di lusso. Il suo Processo, Scorsese l’ha girato con Shutter Island, congegno narrativo esplicitamente paranoico (tutto ciò che vive il protagonista, lo vive a causa di una macchinazione ai suoi danni) che tuttavia (è il suo limite) elegge a proprio telos la rivelazione del momento in cui l’innocenza (quella di rimanere all’esterno della macchinazione) finisce e comincia la colpa, comunque imposta dall’esterno. Non che quel film rinunciasse a intrecciare perversamente colpa e innocenza, ma quest’intreccio veniva autodichiarato così esplicitamente da vanificare ogni paradossalità, lasciando sempre lo spettatore nella posizione, tutto sommato confortevole, di sapersi raccapezzare rispetto a quella reciprocità, di conoscerla e chiamarla per nome.

Killers of the Flower Moon rinuncia precisamente a questa “comfort zone”. In Shutter Island l’identificazione tra lo spettatore e il protagonista Di Caprio veniva incoraggiata tradizionalmente, e mantenuta anche dopo che essa autodenunciava il proprio carattere manipolatorio. In Killers of the Flower Moon, lo spettatore non sa mai, mai, che pesci pigliare rispetto a Ernest, questo piccolo reduce della guerra mondiale che, in Oklahoma, si accasa con un’indiana Osage per farla morire senza dare nell’occhio e drenare i profitti petroliferi che quella tribù si trovava in mano, manipolato dal massone Bill (Robert De Niro) che fa finta di esser loro amico. La certezza che Ernest lavori per Bill ce l’abbiamo da molto presto, ma ciò, tra un voltafaccia presunto e uno vero (tutti, alla lunga, indifferenti), non impedisce minimamente che l’amore per la moglie che egli continua imperterrito ad avvelenare non sia e sembri genuino. Tutto è possibile perché per lui tutto è indifferente, e tutto è indifferente perché ormai, con la Prima Guerra Mondiale, il peccato originale della Storia Ernest l’ha già contratto. Non vedo, non sento, non parlo, non capisco, non scelgo, non sono nulla: e in quanto nulla tutto va bene, tutto può coesistere senza alcun conflitto tragico ma neanche (come ancora nell’imperfetto kafkismo inaugurato da Fuori Orario) equivoco comico. In quanto nulla che cammina, Ernest è al centro di quel processo unicamente, inesorabilmente distruttivo che è la Storia, tritacarne in cui tutto fa la fine degli indiani, tutto, persino il manipolatore Bill che del demiurgo onnipotente (ciò di cui aveva ancora bisogno il paranoico Shutter Island) non ha nulla, e tutto ha del maneggino mafioso pronto a venir spazzato via da un mafioso un po’ più grande di lui e con metodi pressoché identici (J. Edgar Hoover e il suo FBI) prima che lui stesso faccia la medesima fine a propria volta. Nessuno che entri nella Storia è immune dalla condizione inderogabile della partecipazione alla Storia, che è l’impermanenza: anche chi, come il Dalai Lama in Kundun, all’afferrare religioso di quest’impermanenza ha votato la sua vita intera. Tutti, insomma, siamo dei mandala che la Storia spazza via, e mandala sono gli Osage disposti in cerchi concentrici (come la forma di un occhio?), guardati dall’alto, dall’occhio divino che è l’unico che davvero può coincidere con il movimento della Storia. Con buona pace di Bill che, lui, pensava (è la definizione stessa di suprematismo bianco) di essere solo l’agente di una Storia rispetto a cui i nativi americani erano condannati, nessuno si è mai salvato, si salva o si salverà mai, lui compreso. Non avendo fine, lo sterminio non finisce nemmeno quando finisce: negli anni Venti, i nativi americani di fatto non esistevano più come comunità, eppure gli Osage erano ancora lì, perfettamente integrati nel sistema global-petrolifero dei bianchi. Ma appunto, indiani siamo tutti. E per questo, Killers of the Flower Moon non è PocahontasAvatar (e su Cameron torneremo in seguito): tutto è tranne che l’accumulazione originaria marxista (dove, i capitalisti, hanno preso il Capitale da cui hanno iniziato?) mascherata da caduta-dal-paradiso innescata da un più o meno presunto innamorato dell’Alterità. Proprio perché dal paradiso, negli anni Venti, gli Osage erano già stati cacciati da tempo. La Storia come carneficina c’è sempre stata: non inizia certo con la modernità. Dunque nessuna esistenza è pre- o post-storica.
L’unico vincitore del gioco al massacro della Storia è precisamente ciò che non esiste: il Capitale. Il colpo fortunato (lucky strike) di Ernest si ribalta, nello straordinario prefinale, nello sponsor della trasmissione radiofonica che racconta la Storia a spettatori che, come al cinema ai tempi della persistenza retinica dei fotogrammi, vedono immagini che non ci sono. Anche il brand (Lucky Strike) è un’immagine. La società dello spettacolo, diceva Guy Debord, è il Capitale giunto a un grado di condensazione tale da diventare immagine: è, letteralmente, la concretizzazione di tutto il nulla da cui parte, a cui arriva, e che attraversa la Storia. Lo conferma, appunto, il mandala in forma di occhio rimirato dall’occhio divino nell’ultima scena: il nulla della Storia esiste, come esiste la forma concreta di questo nulla che è il Capitale, e dunque esiste l’immagine, ma che esista un soggetto che manovri il Capitale e che veda l’immagine non è che una (inevitabile) illusione paranoica, un’immaginaria fantasia proiettiva di stabilità da dentro l’incessante massacro. Il film suscita e smantella sistematicamente questa illusione paranoica nel momento stesso in cui il target per definizione delle illusioni legate alla manovrabilità del Capitale (“gli ebrei”) viene evocato en passant in un paio di dialoghi per essere poi lasciato cadere nel vuoto.
Nella medesima trasmissione radiofonica, uno degli speaker è Scorsese in carne ed ossa. Ciò chiarisce al di là di ogni dubbio il cuore dell’operazione: raggiungere un punto di completa indistinzione tra tutte le possibili istanze narratoriali. Non c’è più narratore in prima o in terza persona come non c’è più alcuna coerenza tra le incompatibili soggettività che abitano il personaggio di Di Caprio. Scorsese ci invita a identificarci col protagonista Ernest prima di renderlo un personaggio con cui diventa impossibile identificarsi – ma anche allora non lo guardiamo semplicemente dall’esterno, il suo punto di vista diventa melmosamente non-discontinuo con quello più umilmente cronachistico che, in terza persona “onnisciente”, tesse le relazioni e gli eventi del film. Il contrario dell’alternanza rigida tra epos e archivistica documentaria di Gangs of New York: un’indistinzione questa sì vicinissima alla scrittura di Kafka, più impersonale dell’impersonale stesso. Killers of the Flower Moon è dunque un fiume melmoso ma inesorabile: privo di contorni narratologici definiti (qual è il punto di vista? Che cosa esattamente la narrazione ci sta nascondendo “strategicamente”?), segue comunque, scena dopo scena, una direzione logica assolutamente rettilinea. Bill che manipola il nulla ambulante Ernest non è che un coltello che cerca vanamente di tagliare l’acqua, melmosa, di questo fiume, prima che la mano che lo regge venga tagliata da un altro coltello (l’FBI). E non è forse, il conflitto fertile tra prima e terza persona, da sempre la chiave del fiammeggiante stile visivo di Scorsese, qui quanto mai discreto e che si limita a qualche virtuosistico movimento di macchina o stacco di novanta gradi (laterali o verso l’alto) dentro l’anonimo, indifferente compilarsi della narrazione?

Resta una domanda, la più importante. Raccontare la Storia dal lato dell’inevitabile presupposizione di un occhio divino che presieda ai suoi massacri, e di conseguenza dal lato “narratologico” dell’annullarsi a vicenda di prima e terza persona nell’impersonale scorrere di una Storia che travolge tutto ciò che non sappia rendersi non-vivente (il Capitale, Dio), non è certo qualcosa di privo di implicazioni teologiche. Ma queste implicazioni non erano, come si è detto, già liquidate una volta per tutte da Silence?
Una cosa, dopo Silence, ancora rimaneva da fare. Una cosa che Scorsese prova a fare da più di vent’anni (in parallelo a Quentin Tarantino, altro grande cineasta-cinefilo che, in quanto tale, sa quanto gli attori possono incarnare il cinema senza bisogno di recitare): un documentario su Leonardo di Caprio. L’eroe di Titanic (che Killers of the Flower Moon, storia anti-drammatica e anti-romantica di un proletario che prova a lasciar morire una ricca per prenderle i soldi, inverte precisamente) è infatti, come e più che nel paradosso dell’attore di Diderot, il nulla fatto persona. Se Di Caprio è tra i migliori attori al mondo è perché la sua espressività non è solo espressività, ma espressività più lo sforzo per uscire da un’inespressività che non si può non avvertire guardandolo, ma che rimane irreperibile, traducendosi paradossalmente in una perpetua espressività. Di Caprio è la collera del non poter permanere in un’inespressività che unica gli sarebbe naturale. Ritagliandogli finalmente il personaggio dicapriano perfetto, un personaggio che è un nulla ambulante rispetto a cui ogni determinazione identitaria è indifferente, e che per questo è identico sia quando recita sia quando non recita, Scorsese va al di là delle implicazioni teologiche del mettere in scena la Storia come Nulla. Prima ancora delle tre ore e passa in cui queste implicazioni vengano impostate, estrinsecate e risolte, la questione è già risolta in anticipo facendo di Di Caprio un soggetto dalla consistenza quanto mai illusoria ma di cui è inevitabile illudersi. Facendo insomma di Di Caprio, del nulla, l’incarnazione.