Horror, Musical

SWEENEY TODD

Titolo OriginaleSweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata110'
Sceneggiatura
Tratto dadal musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler
Fotografia
Scenografia

TRAMA

In una cupissima Londra di metà ottocento, il barbiere Benjamin Barker cerca la sua sanguinosa vendetta contro l’uomo che lo ha separato dalla sua famiglia.

RECENSIONI

Tutti meritano di morire. L'assioma desolato e furioso del barbiere Sweeney Todd (ex brav'uomo ora assetato di vendetta) e la logica, conseguente carneficina scatenata dai suoi fedeli rasoi segnano il campo per il macabro ritorno di Tim Burton. Il film, quasi interamente cantato, adatta un celebre musical scritto da Stephen Sondheim: il buon Barker, abile barbiere, è ingiustamente accusato, condannato e deportato all'altro capo del mondo per il capriccio passionale del giudice Turpin, che vuole per sé la bella moglie di Barker e la loro figlioletta. Dopo quindici anni, Barker riesce a tornare a Londra sotto falso nome, per cercare la sua vendetta. Ma il suo proposito esplode presto in un irresistibile delirio misantropo e annichilatore: chiunque metta piede nella sua bottega è presto sgozzato, macellato, tritato e usato per farcire le torte della complice Mrs Lovett, innamorata del demoniaco Todd. E il negozio di Mrs Lovett trabocca subito di affamati, innocenti, cannibali.
I feticci Depp e Bonham Carter s'intonano con la solita empatia all'umore scurissimo e grottesco del quadro, sfoggiando anche passabili doti canore (migliori quelle di Depp, senza dubbio). Sacha Baron Cohen condisce di frizzante energia una piccola parte della pellicola; la migliore performance attoriale e musicale (ed una delle migliori di quest'anno 2007 che si è chiuso) è quella del giovanissimo Ed Sanders, nelle vesti dell'ignaro aiutante di Mrs. Lovett, Toby. L'intera squadra si cimenta in liriche complesse: musical arty che non lascia troppo spazio ai ritornelli facili e alle spettacolosità roboanti frequenti nel genere. I sotterranei della bottega di Mrs Lovett ribollono di verità agghiaccianti: l'uomo divora l'uomo. E la follia vendicatrice giunge sino all'orrore più impensabile. O quasi.
Burton è autore classico. E reinventa operette morali con un'audacia pop che in pochissimi autori mainstream possono permettersi. L'irrituale (e un po' furba) scelta veneziana di conferirgli il premio alla carriera a soli cinquant'anni registra in effetti un fatto semplice: con una manciata di lungometraggi, Tim Burton ha creato un paradigma inconfondibile che incrocia intelligenza visiva, riconoscibilità autoriale, coerenza tematica e appeal pop come pochissimi altri cineasti contemporanei. L'impasto burtoniano, fatto di atmosfere, colori, musiche, ossessioni seriali, stramberie empatiche e inquietudini sottopelle, è riuscito, nei casi migliori, a inventare un tipo di fabulazione efficacissima nonostante le frequenti anemie dei plot: uno storytelling interamente fatto di visioni - di vivo, vissuto e sentito cinema - malgrado e contro gli inceppamenti, i tentennamenti, le ottusità di alcuni meccanismi narrativi. Alcuni snodi un po' banali dell'intreccio del primo Batman, certi motivi pigri o automatici di Edward Mani di Forbice, le cadute di ritmo di Ed Wood, le forti incertezze de Il Mistero di Sleepy Hollow incidono poco o nulla sulla capacità dell'opera di costruire e vivificare "storie". E, al di là degli obbrobri palesi come Il Pianeta delle Scimmie, l'opera di Burton vacilla, dopo il miracolo di cinque autentici capolavori in sette anni (Batman, Edward, Batman Returns, Ed Wood e Mars Attacks), proprio quando il Nostro prova a spostare il suo discorso dall'immagine alla parola (il sopravvalutato Big Fish).
Con Sweeney Todd, Burton prova a sviluppare gli eleganti esperimenti eclettici tentati negli ultimi anni. Il virale, deviante (e sottostimato) La fabbrica di cioccolato sembrava suggerire una trasfigurazione del modello Burton, una feconda (almeno in potenza) alternativa al prodotto in cui il Nostro sembrava essersi rifugiato per continuare a coltivare le sue ossessioni più autentiche: i lavori in stop motion (con un primo risultato notevolissimo e un secondo alquanto fiacco). E Sweeney Todd si traveste proprio da film animato, provando a combinare la fibrillazione farsesca piu' gore e il gotico fiabesco cantato dai pupazzetti di Burton & Selick: una scenografia iperdisegnata, trucco e costumi sopra le righe, mood nero e romantico, canzoni, elementare gioco di sentimenti e idee morali, oscillazione tra farsa e dramma. Tutto è costruito a forma di favola in plastilina. Ma il sangue scorre a fiumi, le carni di colpevoli e innocenti sono frullate e ingoiate dai concittadini e i macchinari in cui lo strambo Wonka faceva scorrere cioccolato si riempiono, nei titoli di testa di Sweeney Todd, di vischiosissimo liquido rosso. Le debolezze narrative restano, come se il buon Tim, eccitato dalla magia del cinema, proprio come il suo Edward D. Wood Jr., fosse piu' interessato alla successiva invenzione visiva che alla struttura drammatica dell'insieme. Ma, come nel miglior Burton, queste mancanze sono interamente riscattate da un intenso concerto di colori allegramente neri, movimenti, plasticità teatrali ravvivate da una macchina da presa in gran forma. La pratica truculenta dell'antiumanità, dopo un rapido gioco identificatorio, lascia spazio a risoluzioni morali classiche: il nostro sguardo danza con la macchina da presa di Burton e si poggia consapevole, infine, su una intensa Pietà grandguignolesca grondante sangue. Tutti noi meritiamo di morire. Ma forse la giustizia opera per vie semplici. Come nelle favole.

Sweeney Tood è cugino de Il pianeta delle scimmie e La fabbrica di cioccolato, ma neanche lontano parente di Big Fish e La sposa cadavere. Per la produzione di mr. Burton nel terzo millennio, infatti, è concesso tornare alla grinzosa ripartizione: “film personale” e “film su commissione”. Il primo vibra profondo alle melodie dell’autore, l’altro strimpella le solite note, incassa e sorride, ringrazia e pensa a domani. Accogliendo la limitatezza di tali caselle – a esempio: tutti i lavori risultano derivativi, chi da un romanzo, chi da una fiaba -, costringendo questo cinema proteiforme in dimore anguste, sembra il caso di sistemare la pratica nel secondo settore. Burton contro il musical: uno show semplice, dal tratteggio archetipo e primitivo (My friends = Todd ai rasoi come il condottiero alla spada, siamo nel cavalleresco), pieno di superfici riflettenti screpolate, perché ogni specchio incrinato è la forma stravolta del passato, e di agnizioni sempre decifrabili, concettualmente legate al “disvelamento dell’identità” e “rovesciamento narrativo”. La manipolazione del regista, ulteriormente favolistica, rende i caratteri imbullonati sugli attori (e il contrario) e finge figure plausibili, che in realtà sono traduzioni piane di modelli mitici come la vendetta (Todd), l’amore inevaso (Mrs. Lovett), l’infanzia olivertwistiana (Toby) ecc.
Nei capillari, seppure mimetizzato da inizio della favola, c’è ancora lo storytelling: la pratica di raccontare e le sue articolazioni soggettive, estrinseche nelle prime parole del barbiere (Todd espone il torto patito, più che al marinaio a noi tutti, offrendone la sua versione); e torna il differimento della morale, a fin di bene, con costruzione di un nuovo campo di codici dove il requisito sinistro e perverso domina a logica invertita. Non solo i protagonisti sono criminali, ma anche agenti di “riordino sociale” attraverso il metodo della beffa: se “uomo mangia uomo”, dunque, è lecito realizzare questo postulato con le delizie antropiche di Mrs. Lovett, e se resiste il grave dualismo Alto/Basso è il caso di rivoltare il tavolino e rivolgere l’ammazzamento, come dato insano ma anche egualitario, all’intera collettività universale. A conseguenza estetica, qui più che mai, la legge burtoniana della “morte allegra”: omicidi positivi (crepano i nobili e scampano gli umili), affascinanti scannamenti, preoccupante godimento del pubblico nell’osservarli. Burton fa Burton, nessuna novità. E stavolta, malgrado la traccia combaci precisamente col suo artigianato dark, il regista sconta la doppiezza di risultato; da una parte lo scherzo, l’episodio, la trovata, all’insegna della consueta mostruosità (la masquerade del bimbo, i modi di Beadle Bamford e tante circostanze da Addams Family), dall’altra la reale costruzione di senso e la chiusura effettiva del discorso. Lo scarto autentico, al solito, sta tutto nell’avanzare della peculiare indagine figurativa: la programmazione di un’altra lingua cinematografica. Se in animazione la tecnica stop motion è già un alfabeto diverso, per i film “in carne e ossa” Burton stufo della pellicola punta sulla fonetica organica: dall’impasto dolciario alla fantasia ematica, sono entrambi inchiostri validi per stendere la propria partitura. Lampo di genio: lo sgozzamento non consente di parlare ma il sangue lo permette di nuovo, a suo modo. Ancora, però, pesa la zavorra degli effetti: il film aggiorna, ripropone, varia il tema ma incombe il remake (i titoli di testa esattamente come Charlie and the Chocolate Factory – cambia l’ingrediente, chi se ne accorge?). Decisiva eccezione, i 10 minuti finali. Con furiosa virata tragica (dentro c’è Eracle e molto altro), il film apre a una catena di recisioni tracheali, ovvero tagli all’idioma dominante, nuove lettere che gocciolano dalla gola/sorgente, già autosufficienti, con significati propri. Non più inchiostrare la storia ma personalizzare i pigmenti dell’inchiostro. In questo momento, con Depp grandinante, in posa cristallizzata, Sweeney Todd è davvero scritto con il sangue. Solo in questo, purtroppo.