Drammatico

SOMEWHERE

TRAMA

Divo hollywoodiano in piena campagna di lancio per il suo ultimo film (“Berlin Agenda”), Johnny Marco risiede stabilmente nel famigerato Chateau Marmont. Tra sollazzi erotici, eccessi alcolici e teatrini mondani, vede recapitarsi la figlia undicenne Cleo dalla ex moglie Layla: dovrà prendersene cura fino alla sua partenza per il campo estivo. Nei giorni trascorsi insieme i due avranno modo di conoscersi meglio.

RECENSIONI

 

È possibile girare un film tra un padre una figlia senza blandizie o ruffianerie sentimentali? Sofia Coppola accetta - e stravince - la sfida firmando una pellicola teneramente disadorna, filiforme e soavemente stralunata. Lenti Zeiss d'epoca rispolverate dalla soffitta paterna (quelle usate nel 1983 per Rusty il selvaggio), la trentanovenne cineasta americana affida la direzione della fotografia al vansantiano Harris Savides, il ruolo di protagonista a Stephen Dorff (sorta di Matt Dillon 2.0) e la parte di coprotagonista a Elle Fanning nei panni di Cleo, eterea ma sensibile presenza che porta una ventata di realtà nella casa delle bambole del divo Johnny Marco, il leggendario Chateau Marmont di Los Angeles.Intontito dall'uso di alcool e farmaci, sbigottito dall'assurda campagna di lancio del film appena terminato e pigramente coinvolto in sonnacchiose performance erotiche, Johnny è costretto a interrompere la narcotica routine dall'irruzione involontaria della figlia Cleo, ragazzina undicenne recapitatagli dall'ex moglie Layla (Lala Sloatman). Nell'accogliente camera d'albergo del Marmont prima (complici i videogiochi interattivi) e nella faraonica suite di un hotel milanese poi (complice la piscina privata e i gelati notturni), l'intesa tra i due migliora gradualmente, fino a culminare in una sortita fuori programma a Las vegas, ultima parentesi d'azzardo che precede la partenza di Cleo per il campo estivo. Lasciata la figlia e tornato allo Chateau, Johnny è assalito dall'angoscia: non si sente "nemmeno una persona", chiede invano assistenza telefonica all'ex moglie ("fai del volontariato" gli risponde) e, infine, decide di abbandonare il Marmont. Senza meta.

A descriverlo sembrerebbe un film patetico, melenso e strappalacrime. Ma, come al solito, è il modo in cui è trattata la materia a fare la differenza (chiedo scusa per l'espressione abusata): inquadrature fisse, comicità deadpan, direzione degli attori antiteatrale, Sofia Coppola smorza ogni accento enfatico e castiga pudicamente l'ostentazione delle emozioni, rappresentando la vicenda di Johnny e Cleo con una misura di assoluta semplicità (il che ovviamente non è sinonimo di banalità o, al contrario, affettazione). Un'impronta cinematografica minimale che, pur vicina al grado zero dello stile, non rinuncia alla quadratura compositiva (l'epilogo spezza il cerchio del prologo) o a sottili assonanze interne (il lento movimento di macchina sul divo imprigionato nella maschera di lattice rima con lo zoom all'indietro su Johnny e Cleo a bordo piscina).Musica quasi esclusivamente diegetica (Amerie, Gwen Stefani, Sebastien Tellier, T. Rex), luce prevalentemente naturale (fa eccezione la sconcertante cerimonia dei Telegatti) e recitazione non priva di momenti improvvisati (soprattutto le scene con Sammy, interpretato da Chris Pontius), Somewhere è sonoramente incorniciato dalla bipartita Love Like A Sunset dei Phoenix e visivamente incastonato con sequenze di cristallino nitore affettivo (mentre Cleo pattina sul ghiaccio Johnny la osserva con crescente attenzione, immersi nell'acqua i due scherzano amabilmente). Non c'è astuzia o malizia nel quarto lungometraggio di Sofia Coppola: mancano, vivaddio, le arguzie di scrittura che ammorbano tanto cinema americano indie (basti pensare all'incommentabile Guida per riconoscere i tuoi santi di Dito Montiel). C'è soltanto la lucida determinazione di sbarazzarsi del superfluo e delle bellurie spettacolari, tessendo un film di quintessenziale candore, come la veste in khadi di Gandhi. Un film di spoglia, francescana bellezza.

Somewhere, fresco Leone d’Oro della 67ima Mostra del Cinema di Venezia, non è il film della maturità di Sofia Coppola, per quel che significa questa logora espressione, ma probabilmente è il suo primo film sulla maturità. Una maturità dalle ossa gracili e facili a spezzarsi, disorientata e inconsapevole di sé ma quasi inevitabile, quella che improvvisamente tra capo e collo sente pioversi addosso, rischiando di rompersi la testa, Johnny Marco, uomo senza qualità e attore quasi per caso, divo dal talento presumibilmente non eccelso o non abbastanza coltivato, corpo svuotato, Toby Dammit senza maledettismi munito di Ferrari che anziché causarne la morte lo lascia a piedi. Perché Lost in translation, il titolo della regista cui è più facile, troppo facile, accostare questa sua ultima fatica, era sì percorso anche dalla perplessità quietamente dolente del viso dell’allora cinquantatreenne Bill Murray ma lo sperdimento era tutto della protagonista Scarlett Johansson, una ragazza che stava per diventare ma non era ancora donna, così come la Marie Antoinette del film successivo cui la ghigliottina dell’età adulta avrebbe reciso la testa dalle ragioni del corpo e del cuore. In Somewhere invece l’attenzione di Sofia Coppola, nonostante la presenza della giovanissima Elle Fanning, è focalizzata sul giovane uomo nonché giovane padre Johnny Marco (un corretto Stephen Dorff che ha il fisico ma forse non lo spessore del ruolo). E a differenza che nelle due opere precedenti l’occhio non registra lo spaesamento del ritrovarsi in un luogo alieno con le vertigini esistenziali annesse (Tokyo, Versailles) quanto l’abitare e frequentare luoghi senza più storia e nei quali nessuna nuova storia sembra edificabile. La Los Angeles di Somewhere è un labirinto vuoto che Johnny Marco conosce bene e nel quale si aggira indisturbato, un reticolo di strade insensato che non ha intenzione di decifrare (la donna misteriosa pedinata per un po’ e poi abbandonata), una piscina opaca nella quale ha deciso apaticamente di galleggiare. Lo Chateau Marmont, non un hotel qualunque dunque, tempio sacro e maledetto dello showbiz californiano, è una pensione un po’ fané, senza spettri del passato né fascino bohémien, nei cui balconi manichini a forma di donna offrono amore privo di eros. E anche il soggiorno milanese in occasione dei Telegatti, segmento narrativo un po’ zavorrato di goffaggini ma naturalmente incastrato nella routine dei non-eventi (la qualifica di parentesi dal sapore acido e dalle presunte intenzioni satiriche è assegnata probabilmente solo dai nostri occhi indigeni), è una propaggine kitsch di un kitsch già noto, è l’abituale set cinematografico che si estende in una cerimonia televisiva, è l’hotel Principe di Savoia trasferito senza traumi sullo Strip di Las Vegas.

L’assenza di storie è anche assenza di contatti con l’altro. Il mondo di Somewhere è un mondo di corpi che non si toccano mai veramente. Johnny Marco si addormenta durante i preliminari con una delle sue tante conquiste, guarda da vicino eppur distante, in modo rilassatamente svogliato, le gemelle lap-dancers indistinguibili dal loro riflesso nello specchio, ha difficoltà anche a toccare se stesso mentre si lava, impossibilitato com’è dal gesso al braccio. Se c’è un rapporto sessuale, è fuori scena, invisibile; l’ex moglie gli parla dalla porta senza avvicinarsi più di tanto; l’amante italiana è un’apparizione diafana e molesta in vestito leggero prima e accappatoio poi; una relazione forse più incisiva di altre è ridotta a una sequela di sms rancorosi sul display del telefonino. Sorge il dubbio che il contatto potrebbe gettarlo nel panico come suggerisce la sequenza col massaggiatore nudista, gag per altro non del tutto a fuoco così come non a fuoco sembra la comicità sottopelle del film, sia pur dispiegata nella modalità deadpan segnalata da Baratti. Anche con l’arrivo della figlia e l’instaurarsi di una maggiore intimità emotiva (lui porta già il suo nome, Cleo, tatuato su un braccio, lei entra in scena scrivendo lo stesso nome sul polso ingessato del padre), l’incontro è dapprima mediato dalla virtualità (le sessioni di gioco a Guitar Hero e con la Wii), poi comincia lentamente a sciogliersi in una dimensione più fisica: timidi abbracci, una testa china sulla spalla, una vicinanza parallela (in macchina, sul lettino della piscina). Il contatto genera una crisi salutare. Sfuggendogli la consapevolezza del corpo, suo e altrui, a Johnny Marco è sfuggita anche la sostanza. Senza corpo, senza sostanza, non ci sono storie.

Film sulla maturità, si diceva, una maturità che non è tanto il risultato di un lungo cammino ma quasi constatazione fulminea di uno sbocco fisiologico. Johnny Marco è un uomo che non si è accorto di essere diventato adulto e di non aver ancora costruito la propria storia. Durante una prova trucco, dopo interminabili minuti immobilizzato in una maschera di lattice, l’attore si guarda allo specchio d’improvviso (in)credibilmente invecchiato. È uno dei momenti più belli di un film in cui la Coppola estremizza il suo stile minimalista spogliandolo ulteriormente, un racconto fatto sostanzialmente di piani fissi, pochissimi movimenti di macchina, lenti zoom, dialoghi scarni che però bizzarramente tocca il suo apice proprio in sequenze essenziali ma al confine col didascalico come quella del make-up. La macchina da presa della Coppola gira volutamente a vuoto nel vuoto del suo protagonista, soffermandosi a contemplare quei dettagli minimi, quasi insignificanti ad un occhio pigro, che però segnano uno scarto nel suo percorso umano. Il rapporto padre-figlia ritratto dalla regista rifugge qualsiasi deriva stucchevole: c’è della tenerezza evidente tra i due e la Coppola non la nasconde ma la ragazzina non assume mai il ruolo di metro morale per la condotta del padre di cui è a tratti complice né assurge a figura salvifica in un mondo “inautentico” del quale è comunque figlia e al quale partecipa con divertito distacco. Le sue lacrime non sono lacrime di accusa ma di disorientamento, la sua presenza è un’epifania senza proclami (come mostra la delicata sequenza in cui pattina di fronte allo sguardo prima distratto, poi sempre più attento del padre). Nell’osservare questa relazione e le sue ripercussioni la giusta preoccupazione della regista di fugare qualsiasi infiltrazione retorica è così costante però da asciugare la struttura narrativa fino al sospetto dell’esilità, un lavoro di sottrazione talmente oculato da ingabbiare a tratti lo spessore emotivo del racconto anziché depurarlo. Anche la bella fotografia di Harris Savides, neutra e sommessamente malinconica, devia verso un “vansantismo” che è allo stesso tempo pregio e limite, partecipando a quella sensazione di “troppo scritto”. Pur con queste riserve, l’entomologia sensibile della Coppola, striata di una crudeltà impalpabile, custodisce qualcosa di prezioso e pudicamente doloroso (l’ambiguità del lento zoom all’indietro su Johnny e Cleo che prendono il sole in piscina, sospeso tra solidarietà estatica e ineliminabile solitudine). Troppo facile liquidarla nella categoria (est)etica del minimal-chic.

Storia di falsi movimenti che diventano movimenti reali, Somewhere, come già giustamente sottolineato da Baratti, è aperto da un ottuso moto circolare che sul finale si spezza in una linea retta (l’azzeccato didascalismo di cui sopra). Tra la macchina fissa sul loop esistenziale iniziale e lo sguardo conclusivo verso un ritrovato e invisibile orizzonte c’è un inanellarsi di spostamenti minimi (la già citata sequenza della pista di pattinaggio con l’obiettivo che segue le volute tracciate da Cleo mentre il montaggio stacca sull’interesse crescente che si dipinge sul viso di Johnny, l’ennesimo piano fisso sul protagonista che disteso su un materassino in piscina esce però lentamente dal quadro): from nowhere to somewhere. Si è parlato di più o meno velato autobiografismo da parte della Coppola e non c’è dubbio che ci sia del vissuto nel film, come dichiarato dalla sua stessa autrice. Diventata madre di due bambine tra il penultimo film e questo, figlia del grande Francis Ford, la regista si sdoppia in Johnny e in Cleo, in essi in qualche modo si rivede (e vede il suo passato) e da loro si distanzia. Un’operazione per certi versi affine e al tempo stesso opposta (per stile e personalità) a quella compiuta poco più di un anno fa proprio dal padre che col digitale incandescente di Segreti di famiglia aveva scritto un’autobiografia delirante, mistificatrice e barocca sulla famiglia Coppola. Lo sguardo di Sofia, pur allevato da quello del padre, è uno sguardo altro e rivolto altrove: Sofia ha saputo costruire la sua storia (e il suo cinema), Johnny sta forse per costruire finalmente la sua.

Il sospetto che aleggiava nelle precedenti opere qui diventa certezza: il cinema di Sofia Coppola “ci fa”, “non ci è”. Può trarre in inganno finché s’arrampica su sceneggiature strutturate (anche un minimo: Lost in Translation): qui, invece, mostra il fianco all’imitazione di pura maniera di (altri) film indipendenti-autoriali. Per fare vero cinema “impegnato”, vera riflessione intellettuale e vitale (un’urgenza, non un “genere”), non basta infilare scene autobiografiche tratte dalle esperienze dei viaggi promozionali con papà Francis (qui produttore esecutivo: alla cerimonia del Telegatto, ad esempio, parteciparono insieme nel 2004) e giustapporle al risaputo motivo conduttore della crisi esistenziale dell’attore sprovvisto di personalità propria (unico tema possibile che la regista urla nel finale), tanto per aprire la porta, ammiccando, al meta-cinema, sguazzare nei camei, sfruttare la passerella di bellezze che sfarfallano attorno al divo, dichiarare modelli a random (Sofia Coppola ha citato Toby Dammit per lo sguardo sul mondo dello spettacolo, Un Uomo a Nudo per la crisi con piscine e La Dolce Vita). Più che mancanza di regia, mancanza di regista: i suoi film si fanno da soli, basta posizionare la macchina da presa e lasciare che tutti improvvisino. Tutto serve al “vuoto”, fuori e dentro il film. Così facendo, da qualche parte (somewhere), potrebbe funzionare: in effetti, Johnny Marco si illumina alla presenza della figlia e fra loro si instaura un rapporto coinvolgente. La regista fa con l’Italia ciò che fece con il Giappone in Lost in Translation, riducendo la cultura di un paese a segno grossolano (noi siamo quelli delle “donne nude e fatue”, in sintesi).