TRAMA
Un certo Smith si trova coinvolto in una sparatoria durante la quale si improvvisa ostetrico e fa nascere il bambino dalla donna obiettivo dei killer. Decide di tenere il bambino e chiede aiuto a una prostituta di nome Donna Quintano.
RECENSIONI
Shoot‘em up ( tradotto in italiano con “sparatutto” – è un genere videoludico che dagli albori di Space Invaders, Asteroids o Galaga è giunto fino a noi in forma “nostalgica” (Ikaruga) o metamofizzata nelle miriadi di “shooter” moderni, in prima o terza persona che siano) va letto come una pulp-ata drammaticamente fuori tempo massimo o come un affettuoso bignami riepilogativo del favoloso trapasso fine ’80 – primi ‘90, con la metabolizzazione di Hong Kong in bella evidenza? Volendo benevolmente scartare la prima ipotesi (che comunque, in qualche misura, ingloba anche la seconda), si può anche dare credito alla consapevolezza dell’operazione e parlare dunque di omaggio. Ci sono indizi abbastanza probanti che spingono in questa direzione, basti citare la scelta di affidare la fotografia a Peter Pau, simbolo dello sdoganamento internazionale del cinema di HK (The Killer) e poi del definitivo – in senso buono – sputtanamento occidentale di certo oriente cinematografico (l’Oscar per La tigre e il dragone), o la cornice musicale, che apre con la nostalgia dell’alba 90s, Breed (1991) dei Nirvana, e chiude col crepuscolo 80s dei Mötley Crue di Kickstart my heart (1989). Ma la situazione non cambia molto. Anche ammantato di “intenzionalità”, quello di Davis rimane un film ben poco vitale, per non dire decisamente necrotico: la lunghe coreografie action orchestrate al millimetro, la debordante esibizione del movimento di macchina, l’ultraviolenza parodica, lo humour da imitatore di Rodriguez che scimmiotta Tarantino, è tutta roba matusalemmica, bolsissima, ben poco ricevibile. Non che ogni tanto non si sorrida per qualche gag-gaccia o non si apprezzi qualche sequenza oggettivamente ingegnosa, ma il déjà vu è elevato a una potenza davvero troppo elevata per rendere Shoot ‘em up genuinamente godibile. La recitazione si attesta su – adeguati – standard cartooneschi (bene Giamatti, benino Owen), ma la Bellucci merita un discorso a parte: il problema di Monica non sono tanto le doti attoriali limitate, quanto gli evidenti difetti di pronuncia. Sarà colpa anche dell’autoesilio francese, chissà, ma il suo italiano ormai è tutto un buffo biascichio fischiante da doppiatore di Silvestro (-prima la ppolfere, poi la shhtoppa, poi i ppalini -) e qualunque frase pronunciata dalla nostra è portata a termine con fatica. Con le tre-quattro sparate in napoletano, però, la Bellucci ruba il fuoco agli dei del trash e siede definitivamente, fiera e statuaria, su un trono da regina: hail to the queen, esteti della monnezza.

E' peggio un film casualmente brutto o uno compiaciuto di esserlo? Purtroppo alla prova della visione non fa alcuna differenza. Ciò che è diverso è il "tergo" dell'operazione. In questo senso Shoot'em up - Spara o muori! si propone con ironia come uno "spara-spara" fumettistico e cartoonesco molto divertito ma non altrettanto divertente. L'idea dello sceneggiatore e regista Michael Davis è quella di porre personaggi archetipici di fronte a continue difficoltà che comportano fughe e attacchi senza sosta: un uomo seduto su una panchina, una prostituta dal cuore d'oro, un neonato da salvare e un cattivo senza scrupoli. L'inizio lascia ben sperare, con l'azione che trova subito l'iperbole unendo la violenza iperrealistica di John Woo con il virtuosismo tecnico dei fratelli Wachowski. L'aspetto che più coinvolge è, paradossalmente, l'assenza di motivazioni con cui gli eventi si scatenano, un'urgenza nata dal nulla in una serata qualunque. La sceneggiatura aggiunge però progressivamente spiegazioni e l'intreccio si ispessisce finendo per perdere l'originaria essenzialità e, di conseguenza, quel briciolo di interesse dato dall'inizio "in medias res". Così il film si evolve nella solita critica alle multinazionali delle armi (dopo che pistole di ogni tipo sono state scintillanti protagoniste per novanta minuti), nella trita evidenza della corruzione del mondo politico, in un paio di traumi da rimuovere e nella trasversale ode ai valori della famiglia (pur "sui generis"). L'originalità resta in alcune scelte bizzarre (nonostante lo stile fumettistico i tanti cadaveri non scompaiono nel nulla ma la loro rimozione diventa un problema contingente da risolvere), nel tentativo di caratterizzare i personaggi con efficace elementarità (l'inseparabile carota del protagonista), in alcune virate inattese (la tentazione necrofila del cattivo), ma quasi sempre ciò che sulla carta promette scintille sullo schermo si limita a stridere (lo strombazzato amplesso tra gli spari, l'intolleranza dello sgualcito protagonista verso il cattivo gusto, un inseguimento in caduta libera da un aereo in volo coreografato con la collaborazione del Cirque du Soleil). A peggiorare il tutto, dialoghi virati al trash con battute di rara insipienza (ma il trash liberatorio, occorre ricordarlo, non è quello costruito a tavolino). In parte, invece, il cast, con un irruvidito Clive Owen che fa capire perché sia stato a lungo in forse come novello James Bond, un cattivissimo Paul Giamatti, che dà l'idea di essersi divertito molto, e Monica Bellucci. La diva italiana si conferma icona di bellezza mediterranea, ma recitare è altro. Non la aiuta la scelta suicida di aggiungere, al già discutibile auto-doppiaggio, un saltuario accento napoletano. Roba da far rimpiangere le improbabili gag su Mike Bongiorno inflitte nel doppiaggio della sit-com statunitense "I Robinson". Il fatto di non prendersi troppo sul serio aiuta la pellicola a scivolare senza irritare più di tanto, però il gioco ordito da Davis, frenetico ma non certo adrenalinico, mostra presto la corda.
