Drammatico

SEGRETI DI FAMIGLIA (2009)

TRAMA

Bennie sbarca a Buenos Aires per incontrare Angelo, il fratello che non vede da dieci anni e che ha cambiato il suo nome in Tetro. Ogni famiglia, come spiega il titolo italiano, ha i suoi segreti.

RECENSIONI

Youth without youth- Premessa (Capitolo I)

Dieci anni dopo L’uomo della pioggia, corretta (nel senso più angusto e professionale del termine) trasposizione di un procedural civilmente impegnato firmato Grisham, Youth without youth, la nuova giovinezza di Coppola, libero da commissioni che curino le ferite del bilancio Zoetrope: intenzionalità cristallizzata in un titolo, spudoratezza di un cinema che riflette con rinnovata ingenuità sui propri limiti, bussando senza timori alle porte della filosofia, della religione, della Storia, porte aperte da caricature calibrate su eccessi consapevolmente infantili, ambizioni stilizzate, senza facili catarsi parodiche, che si frantumano a contatto con il dilaniante stupore di una rosa, emblema di una fascinazione puerile per i miracoli del digitale, metonimia di un cinema che non vuole parlare di nient’altro che di se stesso e del suo demiurgo, sintomo infine di una maturità che, in quanto tale, conosce ogni possibilità significante dell’immagine cinematografica, il precipitato infinito di ogni simbolo, e decide perciò di rigettarsi a capofitto e cuore aperto nell’estasi poetica più trita e abusata, abiurando alla confusa complessità messa in campo nel momento esatto in cui s’affida all’elementarità dell’ovvio simbolico. L’arroganza dell’intelletto sconfitta da un atto amoroso: non è solo il succo narrativo del film, ma anche il distillato prezioso del gesto cinematografico di Coppola; Youth without youth è l’harakiri melò di un cinema impotente di fronte a qualsiasi discorso, a qualsiasi riflessione, l’adolescenziale urgenza artistica di un anziano cineasta che sa della fisiologica mediocrità dell’uomo, che conosce i confini della ragione, che ha esperito la tracotanza dell’ambizione intellettuale e la sa caduca, fragile, ben più vana di ogni immediato piacere del cuore, di ogni strappo dell’anima, un cineasta che sa di non poter fare altro che tornare indietro, a prima (e dopo) la sovrastruttura del raziocinio, al semplice e banale, a un effetto digitale in forma di rosa, confidando nelle capacità del cinema di dare vita, di trasfigurare in esperienza estetica illuminante, dispositivo di mostrazione e cassa di risonanza immaginifica grazie a cui sull’ovvio si affastellano strati di senso indicibile, pure sensazioni, emozioni vibranti, fulgore e meraviglia: Youth without youth è un gesto d’amore suicidale e magistralmente fuori misura, scientemente goffo e sublime, beltà già detta e mai stanca di un discorso amoroso/cinematografico ben lungi dall’essere esausto.

Tetro – Recensione (Capitolo II)

Il capitolo secondo dell’altra giovinezza coppoliana è Tetro, presentato programmaticamente in apertura alla sezione indipendente Quinzaine des réalizateurs, prosecuzione ideale del paradossale manifesto Youth without youth: rimembranza autobiografica fatta film, analisi, terapia (ma non luogo d’agnizione). A carte ovviamente scoperte. “Nulla di quello che avete visto nel film è veramente successo. Ma è tutto vero”: nella trama di Tetro si sciolgono volti ed episodi della storia personale di Coppola e della sua famiglia; grumi di fantasmi, conflitti celati e ferite mai sanate abbracciano disordinati caratteri e situazioni della trama, senza concessioni alla chiarezza, alla limpidezza del senso, alla trasparenza delle correlazioni, abbarbicati ad un comparto simbolico saturo da sempre eppure costantemente irrisolto, in un’orgia emotiva che associa liberamente la vita reale alla sua rappresentazione, moltiplicando i livelli, confondendosi con il cinema digerito, il proprio (inutile fare elenchi: c’è tutto Coppola qui dentro) e quello amato (Powell e Pressburger, ovviamente, Korda per implicita parentela, si direbbe facilmente Welles, ma Coppola rettifica: Kazan). Sebbene non manchi di raffinatezze ambigue nella significazione (dopo che a Bennie viene concesso di rimanere con Miranda e Tetro, questi bacia il ventre di lei e sussurra: “Grazie”. Che sia incinta? O che, semplicemente, gli abbia metaforicamente restituito Bennie come figlio?), l’architettura simbolica è, di primo acchito, di svergognata elementarità, lega all’area semantica “famiglia” l’insistenza sulla nominazione (“Prova a dirlo: fratello” , Angie è morto ora sono Tetro, ma non solo: Tetro(cini) colui che pur cambiando nome non riesce a staccarsi dalle proprie radici, letteralmente), l’eterno ritorno delle parole ( Ho scritto una canzone dedicata al tuo nome, lo sai?”), s’adagia su facili parallelismi (il talento del padre crudele: ed è subito Faust(a)), inscena le figure del complesso d’Edipo (la risoluzione pensata da Bennie come finale e poi sorprendentemente proposta da Tetro stesso, su un altro livello di realtà, prevede il parricidio; lo stesso premio indetto da Alone è intitolato “Los parrecidas”) e soprattutto quelle del “doppio” (antonomasia del perturbante e insieme ineluttabilità dello stampo genetico), dalla duplice interpretazione di Brandauer al proliferare di specchi, sino al ribadirsi esplicito nei dialoghi (“Sono scappato come hai fatto tu”, “La febbre del viaggio, presa da te”, “Non fare Me” etc), trovando poi conferma esponenziale e irriducibile nel passato (“E’ la storia di due fratelli”…) e nel suo racconto, nelle narrazioni di Tetro, nella rappresentazione costruita da Bennie, nelle reminiscenze legate a I racconti di Hoffmann (Io sono la bambola Coppellia) e, infine, nei folgoranti frammenti che trasfigurano a livello astratto gli eventi in coreografie e cromatismi di archeriana memoria. La realtà e lo svelamento della verità (sorretta dalla ricorrente simbologia legata alla “luce”, che accompagna i flashback e, mostrando le radici dell’attuale stato delle cose, sembra ogni volta ammassare sul presente il peso insostenibile del passato, tanto da indurre i personaggi alla follia) trovano nell’eco delle finzioni imbastite rappresentazioni monche e imperfette, certo, eppure necessarie. Necessarie non perché salvifiche o illuminanti (si badi bene: non si è di fronte ad un teorema ), ma perché indispensabili a Coppola in quanto artista: se sul finale dei suoi racconti Hoffmann prendeva coscienza del suo ruolo di poeta e lasciava l’amata Stella al rivale, Tetro rigetta ogni conclusione, si sottrae alla vista dello spettacolo di Bennie, rifiuta il riconoscimento di Alone, il chapeau della critica; così come Dominic Matei in Youth without youth non termina la sua enciclopedica missione in nome dell’amore, Tetro rifugge la quadratura del cerchio, si nega al successo, elude la pubblicità della sua opera: diviene consapevole dell’arte come semplice e intimo bisogno, nonostante tutto, nonostante tutti (cfr. l’Hector Mann de Il libro delle illusioni di Paul Auster), preferisce vivere il presente anziché situarsi nella Storia (lo avrebbe fatto compiendo il destino tragico della famiglia e fidandosi della via indicatagli dalla piece del fratello) o eternizzarsi nel mito consacrato. L’arte è solo un bisogno: la stessa realtà filmica appaga lo sfrenato impulso di rappresentazione con la trasfigurazione (come germinata dal film stesso) degli eventi in uno strato finzionale ulteriore, sintesi di impianto teatrale delle vicende narrate e dell’attitudine per gli spazi musicali di Powell. Coppola - autore totale, sceneggiatore, regista, produttore e distributore oltreoceano - aderisce allo spirito di Tetro, confezionando un’opera piccola, poche copie lontane da Hollywood. Cinema di limpidezza lacerante: Tetro è vita deformata in scatole cinesi progressivamente bigger than life, abisso e tripudio melò su basi autobiografiche, pura necessità dell’arte, potenza di un cinema che si riscopre familiare, popolare, elementare sino al kitsch ma che sa non essere mai pago, dato, risolto, incanalato su vie scontate (d’altronde, da un punto di vista narrativo, se il punto di vista dominante è quello di Bennie, non c’è mai completa adesione, pullulano le deviazioni), capace invece di ridonare senso all’ovvio, stratificandolo, confezionando rime interne che si trasformino in evocazioni mai finite (per questo le colpe di una scrittura sbalestrata appaiono irrisorie), lavorando sul già visto dallo spettatore, prendendo la strada di digressioni inaspettate che spesso illudono di trovarsi di fronte ad un semplice racconto di formazione. Dinnanzi a questo spazio virtuale densissimo, abitato da meravigliose figure imperfette, imbastito dalle immagini assemblate da Walter Murch e dal suo solito, sontuoso, tappeto sonoro, svanisce ogni difetto, ogni imperfezione. Dinnanzi a Tetro si vorrebbe attribuire a Coppola una sentenziosa frase del Michael Powell qui celebrato in diverse sequenze: “Io non sono un regista personale. Io sono il cinema”. Lo diciamo noi per lui, senza sprezzo del ridicolo.

Pochissimo da aggiungere alla fenomenale esplorazione dell’universo coppoliano compiuta da Sangiorgio, giusto qualche osservazione sulla sgretolante linguisticità di Tetro, film che, al pari di Youth Withouth Youth, fa della formulazione linguistica una sorgente di lacerante conflittualità. Il confronto fra Tetro/Angie e Bennie si gioca interamente sul linguaggio, a partire dall’incontro iniziale in cui il primo dichiara il proprio disgusto per l’aggettivo “carino” appena usato dal secondo. Tetro ha rabbiosamente trasfigurato il linguaggio, lo ha deformato, lo ha sovrapposto alla propria persona: di lui Jose dice che sia il miglior datore luci di Buenos Aires, il suo strumento espressivo, fonte di verità, è ormai divenuto la luce (“Questa luce è la verità. Il linguaggio è già morto”). E il fascio luminoso che lui punta sul palcoscenico di Faust(a) è vero alla lettera: dà luce allo spettacolo e ne mette in luce tutta l’insulsaggine ma sussiste anche al di fuori di esso, nello spazio concreto della sala. La luce travalica la finzione, la sovrasta, anche fisicamente (il proiettore collocato in posizione sopraelevata).
Le tappe del processo di trasfigurazione/incorporazione linguistica di Tetro sono ricostruibili grazie alla decifrazione del suo manoscritto e ai flashback nella clinica psichiatrica: dapprima cripta la scrittura utilizzando un codice militare e capovolgendone i caratteri (Bennie si serve di uno specchio per raddrizzarla), poi stringe ossessivamente al petto tutto quello che ha scritto (“When I met him, he said he was a writer. He held everything he ever wrote against his chest”, dice Miranda, nome che alla lettera significa “da guardarsi con ammirazione”, altra elusione del linguaggio verbale a vantaggio della vista). Il distacco di Tetro dalla parola, concrezione di vanità e menzogna, prosegue nel rapporto interrotto con Alone (ecco il destino di chi si affida alle parole: solitudine) e nell’assenza del suo nome dal libro che la critica ha appena pubblicato (“Nuovi orizzonti della letteratura: ci trovo il tuo nome?” chiede avidamente Bennie a Tetro; la risposta è un inappellabile “No.”).
Bennie percorre invece il cammino inverso: passare dalla vita alla scrittura, correggere le storture e gli strappi dell’esistenza con l’ordine della rappresentazione. Prima legge a Tetro la lettera in cui questi gli prometteva che sarebbe tornato a prenderlo e gli dichiarava affetto (scatenando ovviamente le ire di Tetro, il quale non si riconosce più nella lettera) e poi trascrive per filo e per segno il suo manoscritto, rendendolo leggibile e soprattutto condivisibile. Bennie cerca di ricondurre l’incomprensibile alla linearità e alla leggibilità, tenta di spiegarlo. Ma per Tetro quel brogliaccio è un cumulo di cose sterili, scarti, residui di un essere ormai defunto (“Come ti sei permesso di frugare tra le mie cose? Questa merda l’ha scritta Angie. Angie è morto!”, grida infuriato a Bennie colto con le mani nel sacco). Infine Bennie pone il sigillo finale, conclude l’opera.
Tra i due non si dà comunicazione se non nell’azione (“Il poeta deve agire” è LA frase), nell’abbandono della messa in scena, dello spettacolo riparatore e gratificante a favore dello spostamento imprevisto, della deambulazione claudicante, del cammino rischioso (l’incidente di percorso si fa emblematico segno di avvicinamento). Apparentemente scontroso e respingente, Tetro fa di tutto per aprire gli occhi a Bennie, anche a costo di sacrificare la propria vita per fargli capire quanto l’essenziale risieda nell’uscire dalla finzione. Neutralizzare il linguaggio e le sue temibili lusinghe (“Il tuo parere non conta più per me”, sibila alla influente Alone rinunciando fermamente alla gloria del premio festivaliero), spostare l’accento dalle parole alle cose (“Se tu avessi un’unica parola da regalare e se questa fosse quella parola, a chi la daresti?”, dice a Miranda indicando la sigaretta posata sul tavolino).
Questo ci suggerisce il film di Coppola: rinunciare alla frase cinematografica eburnea, alla costruzione filmica ben tornita. Spiazzare, depistare e frantumarsi nelle mille schegge che (s)compongono la materia vitale. Incrinare la maschera mortuaria dell’idolo, spezzare la sua bacchetta che dirige, detta i tempi e orchestra: il padre da uccidere non è Carlo o Angelo/Tetro, è il linguaggio. L’autentico gerarca del senso: “la lingua non è né reazionaria né progressista; essa è semplicemente fascista; il fascismo, infatti, non è impedire di dire, ma obbligare a dire” (Roland Barthes).

Autobiografia sognata , mistificata, barocca. Tragicommedia familiare che affastella sorrisi argentini, riflessi grotteschi, turgori edipici, dolori danza(n)ti. Scritte e narrate letteralmente con la luce (un bianco e nero incandescente, un colore saturo e raggelato). Coppola orchestra col suo Tetro un lucido delirio luministico, dentro e fuori la (sua) vita e il (suo) cinema, sferzato da scariche elettriche mélo (prodigi della fotografia di Mihai Mălaimare Jr e del montaggio di Walter Murch). Nel proliferare ad libitum, quasi scriteriato, di svariate messe in scena (tra le parole scritte di un libro, le quinte di un teatro, gli strumenti di una sala da concerto, nel backstage di una trasmissione televisiva, sul set di un film, nei meandri del sogno) e nella fuga da esse Coppola sembra tradurre l’impresa titanica di sottrarsi all’impero dispotico del linguaggio codificato e alla tirannia della parola, la ricerca ossessiva e mai doma di una nuova fluida libertà espressiva, di un’altra (impossibile?) giovinezza. E al tempo stesso raffigura l’arte come necessità e come maledizione, come amato/odiato “affare di famiglia”, eredità e patrimonio da coltivare e mettere a frutto e tara congenita di cui cercare di sbarazzarsi. Nel tentativo di liberarsi della propria famiglia di artisti o aspiranti tali, Angelo Tetrocini (un allucinato, vulnerabile ed esatto Vincent Gallo) oltre a costruirsene un’altra, sfugge progressivamente ad ogni rielaborazione fiction della propria vita e di quella dei suoi consanguinei e al riconoscimento pubblico delle stesse, pur nell’intima consapevolezza che è solo attraverso lo schermo dell’arte che forse si può fissare la luce senza farsi accecare (le speculari affermazioni “la luce è la verità”, “non guardare la luce”; la falena svolazzante attorno alla lampadina dell’incipit, i fari minacciosi delle auto nel finale). L’aspirazione coppoliana all’Opera Totale che travalichi regole preimposte e limitanti, chimera di tutta la sua tormentata carriera giocata tra amate e catastrofiche sperimentazioni personali e trionfanti successi nella grammatica dei generi e nelle regole degli studios, aggiunge qui un altro tassello, più privato, assumendo come nume tutelare la visionarietà sublime e fusionale de I racconti di Hoffmann di Powell e Pressburger (ma anche di Scarpette rosse). Il tentativo è ovviamente accidentato, dall’andamento a volte claudicante, a volte stordito dai simbolismi. Il risultato finale, affettuoso e crudele al tempo stesso, è un’autofiction labirintica e ammaliante che trasfigurando l’intera famiglia Coppola, la protegge e l’annienta, ne incendia le ambizioni artistiche purificandole.