Drammatico, Recensione

SATURNO CONTRO

TRAMA

Intorno a Lorenzo ruota una piccola comunità di amici: la morte del giovane mette a confronto i drammi e le insicurezze di ognuno di loro.

RECENSIONI

Saturno contro prova a essere un film corale, ma arriva al massimo a una galleria di personaggi secondari (Almodovar incombe) che non si integrano mai in affresco e che rimangono sparse figurine abbozzate su un vago scenario e di cui a un tratto (mezz'ora dalla fine) il regista non sa evidentemente come sbarazzarsi; è allora che parte la soluzione più comoda, che è quella à la 'grande freddo', con tutti i protagonisti concentrati nell'unità spaziale a condividere momenti di solidarietà et verità.
Che Ozpetek non sia uno sprovveduto ce lo dice una serie di indizi chiari, una tendenza alla soluzione imprevista e talvolta opportuna (quegli improvvisi piani ravvicinati, i montaggi alternati, il piccolo frammento della vestizione con i dettagli in macro, il piano sequenza che conduce Accorsi e la Ferrari al loro convegno clandestino, messo lì come un oggetto quasi astratto, e che è di gran lunga la cosa migliore del film) oltre alla adorate ellissi: piccoli sprazzi che più ancora evidenziano la elefantiaca quantità di difetti che un'opera come questa può lamentare a contrappunto; il successo gli arride e il regista si guarda bene dall'allontanarsi da certa formula buonista e di attualità, che lo premia puntualmente (si comprenda anche Cuore sacro, lavoro ambizioso e "malato", molto più interessante di quest'ultimo) e lo promuove autore oramai da un pezzetto.
Mi domando allora perché ci si accanisca tanto contro il cinema di Muccino quando, a conti fatti, quello di Ozpetek si presenta, allo stesso modo, registicamente smaliziato e non meno consapevole, furbo e retorico, tematicamente più sbilanciato sul versante gay ma alle prese con nodi in tutto simili (problemi di coppia, malessere borghese, quarantenni in crisi, amori- tradimenti - ipocrisie - meschinità oggi), con una strizzatina d'occhio al rotocalco e a certe sacrosante battaglie (pacs - dico, pacs -, eutanasia) toccate al volo (ogni cosa si tocca al volo, nulla si approfondisce, fosse pure una psicologia, anche se poi tutto si fa virare su uno psicodramma che non poggia, dunque, su alcun presupposto), ma a conti fatti molto meno compiuto e quadrato di quello del regista romano, quest'ultimo più concreto e deciso nel suo intento di edificare quel cinema medio che in Italia non esiste da decenni. Privilegiando il confronto 'uno a uno' (tutti i possibili incroci di personaggi vengono esperiti, piccoli dialoghi che dovrebbero aggiungere un mattoncino all'edificio della drammaturgia che non c'è e che fanno solo brutto teatro - per tutti: Accorsi che confessa il tradimento a Buy -), sbilanciandosi sulla facile ironia (se non sulla macchietta tout court - i personaggi interpretati da Ambra Angiolini e da Serra Yilmaz -), presentandoci quei bambini saccenti che sono un prodotto creativo del Bel Paese (quasi un marchio doc delle produzioni nostrane: sembra che in Italia non esista più un'infanzia normale) l'opera fa emergere il quadro di una famiglia allargata, in cui non è 'accettazione' la parola d'ordine (orribile e razzista peraltro) ma 'condivisione' e solidarietà' (tutti amici di tutti - anche dopo storie d'amore finite -, tutti che curano tutti - un'immagine mitica che il regista culla e che mi pare rispettabile come qualsiasi altra ossessione poetica -), laddove 'separazione' (in ogni sua forma) è il trauma da affrontare ed elaborare. È impossibile d'altra parte non rendersi conto che all'importanza del tema, nel quale si scolpiscono alla bell'e meglio i caratteri utili allo svolgimento, faccia riscontro una superficialità allarmante, una scrittura facilona da teleromanzo che è poi il solito difetto dell'autore: Ozpetek sceneggia (e fa sceneggiare) troppo e male, sovraccarica l'ordito (non manca la voice over, superflua come solo la voice over di un film di Ozpetek sa essere) e ancora una volta non trova misura né equilibrio, girando (letteralmente e non) per quasi due ore a vuoto.

Frivolo come il carnevale, tetro come la quaresima, noioso come un'omelia ratzingeriana sulla famiglia, ci piomba sul capo il film d'uno dei registi più amati dal senso comune dell'Italia sedicente progressista, che pronta vi si rispecchia: apparentemente ben educata ma al fondo triviale (tanto da apprezzare come provocatorie le penose escandescenze verbali del personaggio interpretato da Fantastichini), oziosamente compiaciuta del proprio decoro (lo stesso che si respira nella casa dei nostri eroi: il francescanesimo di Cuore Sacro era un cinico fuoco di paglia, come facilmente si rilevò a suo tempo osservandone lo stile) e della propria presunta cultura: si guarda – sonnecchiando – Ludwig, pile di libri stazionano invano sui comodini, Yourcenar fa pigramente capolino tra facce imbambolate o vanamente esagitate; all'appello della Cultura manca purtroppo Gide, che col suo odio per l'istituto famigliare tanto gioverebbe ai familisti di casa nostra.
Sentimentalismo borghese: la crisi coniugale di Buy e Accorsi, a parte la recitazione stonata di lui e quella straniata di lei, è un festival neppure del già visto, ma del mummificato. Temendo che il pubblico non comprenda, il regista si sente però autorizzato a esplicitarne i nodi e la dinamica in forma soapoperistica.
Stucchevole familismo - ristretto od allargato, la minestra non cambia - d'una fiaba luttuosa e consolatoria: l'unica felicità è dentro il guscio protettivo che tutti sa accogliere; nessun contrasto o tensione o dolore che non sia destinato a sciogliersi in virtù del reciproco affetto si manifesta all'interno del paradiso özpetekiano, autoreferenziale fino all'autismo.
Massicce dosi di pedagogia: micidiali sono le battute all'indirizzo della parrucchiera svampita, personaggio offerto come capro espiatorio al divertito senso di superiorità del pubblico friendly; la conversazione fra Angiolini (dall'occhio spalancato e vuoto forse per esemplificare una nozione poco chiara, benché ripetuta oltre venti volte: la signorina si droga) e Vukotic (sempre brava, la sora Pina, ma penalizzata dal personaggio di bisbetico angelo della morte) sta invece a metà - come il cinema di Özpetek, del resto - tra il moralismo e la vacuità che si atteggia a sofferta intensità.
Inerzia drammatica e piattezza della sceneggiatura: un andare, un venire e un ristare senza il sospetto d'un guizzo, d'una variazione; nessuna zona d'ombra a insaporire la primordiale linearità delle psicologie: sai già cosa succederà prima che succeda, cosa i personaggi diranno prima che lo dicano (mentre quel che sentono o fanno te lo spiegano con dovizia di dettagli), dove e come guarderà il regista prima che egli guardi: lo sviluppo è per intero racchiuso - implacabilmente, ideologicamente - nelle premesse.
Dialoghi dementi o sciatti (e quello sugli abiti dei due amanti, felicemente confusi nel mega-armadio della camera matrimoniale, cumula le due qualità), funzionali tuttavia alle prediche di volta in volta propinateci: sulla felicità, sul lutto e sulla fedeltà coniugale o paraconiugale, antico feticcio perbenista che torna a mietere vittime fra le minoranze più realiste del re, desiderose d'esser ricevute nei salotti buoni e perciò dimentiche delle parole di Coco Chanel: Del Gotha, me ne infischio.
Concetti elementari ripetuti all'infinito, senza compassione dello spettatore. Scene patetiche a ogni quarto d'ora, volgari perché raggiunte a freddo, con bieco intento di lucro (il dialogo tra Accorsi e Favino è solo il più chiaro dei molti esempi possibili). Siparietti per smorzare l'ipotetica commozione (l'onnipresente Yilmaz non manca di elargire le sue banali massime e le sue freddure orripilanti). Panoramiche e carrelli esplicativo-simbolici - uno dei più temibili marchi di fabbrica di Ferzan - d'insopportabile prepotenza, anch'essi ripetuti due, tre, quattro volte a beneficio di chi dura a capire che quella mostrataci in Saturno Contro è un'autentica e unita famiglia, amorevolmente avviluppata dalla m.d.p. per compensare l'arcigna ostilità del legislatore e il duro sguardo della parte più retriva della società; lo schema de Le Fate Ignoranti viene per l'intero arco del film iterato ad abundantiam, anzi ad nauseam, sicché l'intento dimostrativo, già invadente ab origine, qui satura ogni spazio, ogni attimo della messinscena.
Se la prevediblità non è riscattata dalla profondità, la banalità non lo è dall'intensità; non un barlume di passione o d'affetto trapela dalle immagini, dai moti o dalle parole o dai volti dei protagonisti: solo un infinito spiegare, senza l'ammirevole acredine del pamphlet o perdonabili dilatazioni romantiche (quando vi si è provato, ne La Finestra di fronte, il regista è peraltro apparso molto a disagio). Non parliamo poi di potenza significativa del plot, tale da riassorbire l'impianto didascalico nella pregnanza espressiva delle immagini (come accadde, ad esempio, col pessimismo cosmico del Gitai di Eden).
Neppure il supposto afflato solidaristico spira nell'elegante dimora della buona famiglia protagonista, o nei corridoi dell'ospedale ove essa fa il nido in attesa della ferale notizia. Non ci turba la circostanza che Saturno Contro sia animato da intenti di oratoria civile, ma l'assenza di elaborazione formale se non al livello dell'espediente didattico o strappalacrime e dell'improvvisa ricercatezza superbamente scagliata sullo spettatore (l'incontro erotico fra Accorsi e Ferrari fa il paio, nel suo ozioso ondivagare rococò, con la belluria stilistica che apriva Le Fate Ignoranti), il martellìo monotono con cui il "messaggio" viene ribadito senza sfumature o sottintesi: il problema dei problemi, nelle opere di Özpetek, è che tutto è detto, ed è detto troppo, ed è detto con prosa greve e sorda. Spianata ogni ambiguità o ricchezza di significati, di fronte a questo film una a caso delle opere meno ispirate di Ken Loach sembra possedere le stesse misteriose inflessioni dell' Avventura.
Non è il livello alquanto primitivo delle banalità erogateci a sconfortare (la storia del cinema ne è piena), ma l'estrema povertà del cuore drammatico che vi si costruisce intorno: il confronto tra i personaggi di Favino e Diberti, che dovrebbe costituire il culmine del film, si dipana in un modo aridamente programmatico che irrita: il severo padre del moribondo arriva, dice che vuole capire, e capisce, infatti, al solo vedere il fidanzato del figlio in lacrime in compagnia di un variopinto corteggio di manichini; poi se ne va, con l'abbraccio commosso al genero a siglare la sua comprensione. Peggio vanno le cose con l'elaborazione del lutto da parte della numerosa famigliola, risolta fra un pranzo in campagna, una bella chiacchierata e una partita di ping pong. Un finale a tarallucci e vino che si può definire scandaloso.
Insomma, ancora una volta è la stupefacente corrività espressiva a rendere indigesto il "messaggio". Nel 2004 comparve sugli schermi Wild Side, di Sébastien Lifshitz: non era un film "sulla questione" delle famiglie di fatto, né pretendeva di propagandare una nuova norma sociale dei legami famigliari. Anche per questo, riusciva a essere un intenso ritratto dell'intrecciarsi e contraddirsi degli affetti in una piccola comunità formata oltre le barriere d'orientamento, di genere, d'età, di sangue. Qui da noi il film ebbe scarsa eco; oggi, sarà senz'altro l'ideologismo di Özpetek a far da padrone nelle mediatiche tavole rotonde: l'ennesimo "film da dibattito", secondo uno schema che si ripete con poco invidiabile costanza, e che in altra occasione Pacilio ha evidenziato nelle sue cadenze decisive.