TRAMA
Episode 3.5 – ovvero – come i ribelli hanno rubato i piani della Morte Nera.
RECENSIONI
Tutto partì nel 1977 da un film che non avrebbe dovuto avere alcun seguito e con George Lucas che che confessava al suo amico Steven Spielberg (all'epoca sul set di Incontri ravvicinati del terzo tipo) i suoi timori più reconditi. Oggi Star Wars è uno dei più grandi franchise cinematografici esistenti, un universo espanso e transmediale che sta affrontando il suo terzo ciclo sul grande schermo dopo le cosiddette Original Trilogy e Prequel Trilogy. Siamo nell'era in cui la serialità cinematografica si fonde con il blockbuster hollywoodiano: un momento storico dominato dalla Disney, che dopo aver acquistato i diritti della saga da Lucas ha messo in piedi un progetto di sei lungometraggi di cui tre appartenenti a una nuova trilogia (che molto probabilmente verrà storicizzata come Sequel Trilogy) e tre spin-off. Da una parte c'è un nuovo arco narrativo tripartito, in continuità con il passato ma con l'obbligo di dare futuro alla saga attraverso nuovi personaggi, dall'altra tre deviazioni dall'architrave narrativo principale (almeno sulla carta) che assumono il ruolo di backstory e possono permettersi di viaggiare ad altre altitudini e addirittura parlare a pubblici leggermente diversi, anche se comunque nell'ambito dell'ampissima fetta di spettatori cui mirano i film ad alto budget.
Rogue One: A Star Wars Story è il primo dei tre spin-off in programma e in quanto tale ha il compito di settare un modello – seppure meno rigido rispetto a ciò che ha fatto J.J. Abrams l'anno scorso, per via dell'indipendenza della tripletta di film di cui fa parte – “incastrandosi” temporalmente tra la fine della Prequel Trilogy e l'inizio della Original Trilogy per raccontare la storia dei ribelli che (in un mondo in cui la Forza e i Jedi sono ormai un lontano ricordo e l'Impero domina la galassia) riuscirono a rubare i documenti essenziali alla distruzione della Morte Nera. A ben vedere più che un punto medio tra le due trilogie, Rogue One si piazza immediatamente prima di Guerre Stellari, tanto che Peter Debruge su Variety lo ha definito Episode 3.9, visto l'incastro perfetto con il primo film della saga. Alla regia è chiamato Gareth Edwards, che arrischia un deciso cambio di direzione realizzando un war movie molto più adulto dove la violenza è costante, si spara alle spalle senza particolari risentimenti e si muore davvero; un film permeato da un'atmosfera di tragedia che il finale richiede in maniera obbligata. Edwards fa con Rogue One un lavoro abbastanza simile a quanto fatto con Godzilla, raffinandone la fattura ma mantenendo il metodo: il cuore del film è infatti spostato verso la fine, quella parte in cui lo stile del regista prende il sopravvento diventando a tutti gli effetti attrazione estetica, puro spettacolo cinematografico. Per farlo però è necessaria una prima parte introduttiva che faccia da fondamenta, una conditio sine qua non che in questo caso rispetto al precedente film del regista risulta più calibrata e meno ridondante, seppur allo stesso modo preparatoria.
È proprio in questa prima sezione che risiede il punto di maggiore problematicità di Rogue One, ovvero i personaggi, che a una prima impressione destano un deciso spiazzamento, per via della loro natura peculiare e priva di tridimensionalità. Si tratta di un mucchio selvaggio di caratteri che si fa sempre più compatto a seguito di momenti altamente simbolici (il primo incontro tra Jyn e K-2SO, l'arrivo a Jedha, il fallito attentato a Galen), una specie di albo di figurine in live action al quale in prima battuta si vorrebbe chiedere molto di più di quello che si riceve. L'eventuale insoddisfazione trae origine dal paragone con il referente più prossimo, cioè The Force Awakens e i suoi protagonisti. Sotto questo aspetto i due film sono separati da differenze siderali, vista l'afferenza a due modelli di caratterizzazione antitetici. Da un lato il film di Abrams, essendo anche il punto di partenza di una nuova trilogia, affronta la responsabilità di creare protagonisti duraturi nel tempo attraverso una narrazione character driven, incentrata sull'approfondimento dei profili di Rey, Finn e Kylo Ren. Dall'altro il film di Edwards, in quanto spin-off con un finale chiuso, risulta spiccatamente plot driven e fa dei propri personaggi le pedine della narrazione, vera regina del film. L'architettura narrativa di Rogue One è mossa da un evidente fatalismo, tanto da fare del film sotto certi punti di vista l'episodio più vicino allo spirito che permea la saga: sappiamo cosa succederà a questi guerrieri, siamo a conoscenza di come andrà a finire la ribellione (nel bene e nel male) grazie a quel prologo del 1977, in cui la didascalia che dà inizio a Guerre Stellari racconta esattamente il finale del film di Edwards. Da questa prospettiva l'opera è come un imbuto in cui ogni goccia non può che scendere verso la parte terminale, ovvero la cosa più aderente possibile a una visione del mondo in cui tutto è governato dalla Forza e in cui la Ribellione - come noi spettatori sappiamo da decenni - non può che portare a termine la propria missione lasciando però sul campo i corpi dei suoi valorosi eroi. Pertanto le storyline dei personaggi, così come il loro vincere o perdere nelle singole battaglie, non richiedono particolari giustificazioni narrative, se non quella di completare un percorso a tappe eterodiretto, che infatti conduce ciascuno di loro alla morte solo dopo aver portato a termine il proprio compito e questo vale per i guardiani dei Whills Baze e Chirrut, per il pilota Bodhi, per il droide K-2SO e per i due protagonisti, Cassian e Jyn.
Questo tipo d'impostazione, benché destabilizzante dal punto di vista spettatoriale dopo un film come The Force Awakens, risulta coerente con gli obiettivi del film e con la centralità da un lato del plot, dall'altro della Ribellione intesa come soggetto collettivo. Tuttavia non possono essere eluse delle criticità circa la gestione di alcuni personaggi: se questo lavoro funziona alla perfezione con per i ruoli secondari - soprattutto con Chirrut, Baze e K-2SO - per quanto riguarda Cassian e Jyn (che a differenza degli altri godono di un maggiore peso narrativo) c'è un momento in cui non è altrettanto convincente. Nella prima parte del film Jyn, dopo aver aperto gli occhi sulla Causa grazie al messaggio del padre, fa un lungo discorso motivazionale che spacca in due il gruppo, selezionando così quelli che faranno parte del team di misfits che andrà in prima linea a recuperare i documenti; inevitabile chiedersi quanto sia credibile che un personaggio fino a quel momento di poche parole e disinteressato alla ribellione non solo si converta ma diventi anche il leader carismatico del movimento. Appare anche un po' forzato che grazie a quel discorso i membri storici diventino improvvisamente a lei subordinati, primo tra tutti Cassian che tra l'altro sarebbe anche (come da credits) il capitano della missione. A ben vedere si tratta di un problema abbastanza circoscritto e che non pesa più di tanto su un film gestito in maniera efficace anche dal punto di vista narrativo, ma senza dubbio risulta una piccola stonatura che forse poteva essere evitata aggiungendo qualche minuto in più oppure scegliendo di non partire da così lontano con la storia della protagonista in modo da poterne sviluppare al meglio il ruolo all'interno della squadra.
Sebbene decida di raccontare una storia atipica rispetto agli altri film (senza Jedi, senza Forza), Rogue One vive un'impennata qualitativa notevole circa a metà film, quando entra a tutti gli effetti nel cuore dell'epopea grazie all'arrivo della più iconica delle sue figure. Costruendo un ponte con il finale di Episodio III, Edwards ci porta sul pianeta vulcanico in cui Anakin Skywalker (in seguito al combattimento con Obi Wan Kenobi) è diventato Darth Vader, mostrandoci la sua casa e il posto in cui viene tenuto in vita. La sua presentazione è potentissima dal punto di vista del lavoro sul mito, grazie a un approccio climatico che va dal celeberrimo respiro fino all'inconfondibile ombra proiettata sul muro, passando per il corpo nudo e martoriato. Il confronto tra Vader e Krennic funziona perfettamente non solo per via dell'abbagliante aura dell'attesissimo personaggio, ma anche in quanto duello attoriale di altissimo livello che vede da una parte un Ben Mendelsohn in stato di grazia e dall'altra, sotto l'armatura, l'indimenticabile voce baritonale di James Earl Jones. Da quel momento in poi è come se Darth Vader imprimesse una violenta direzionalità al film, che accelera verso il suo epilogo in maniera vertiginosa fino ad arrivare alla sequenza in cui il più potente dei Sith ritorna con furia disumana, comparendo sineddoticamente prima con la spada laser (che si vede per la prima e unica volta) e poi con una tangibile corporeità con la quale in un corridoio claustrofobico stermina tutti i ribelli che ha sotto mano, i quali però passandosi il file di mano in mano riescono comunque a completare la missione, lasciando Vader solo con la sua rabbia. Sono sequenze in cui Michael Giacchino, autore della colonna sonora, trova i suoi rari momenti di brillantezza all'interno di una colonna sonora che altrimenti è da considerarsi uno dei pochi punti deboli del film, essendo priva del tocco dell'insostituibile John Williams. Nelle scene finali non si può che assistere immobili alla magia del cinema, attimi liturgici in cui i miti dell'infanzia risorgono grazie al potere della settima arte e del suo storytelling. Un meraviglioso climax conclusivo ci consegna infatti un gioco di prestigio, che spinge il file con i piani della Morte Nera dalle mani dei ribelli fino a quelle della principessa Leia, lasciando il pubblico a bocca aperta e con gli occhi lucidi di fronte ai titoli di coda.
Dal punto di vista registico Gareth Edwards realizza un piccolo miracolo, dando vita a un mondo che di favolistico ha ben poco ma che al contempo si allaccia all'universo della saga in ogni sua sequenza. Raccontare questo soggetto per Rogue One significa pescare a piene mani dalla guerra anziché dall'epica, mettendo in scena l'altra faccia di Star Wars, quel mondo fatto di battaglie su battaglie (nello spazio e sulla terra ferma) tra le truppe imperiali e quelle dei ribelli. Per farlo l'autore costruisce un setting che chiama in causa le opere cardine dell'immaginario bellico americano, andando dalle quelle che raccontano la guerra al terrorismo islamico come Homeland e Zero Dark Thirty (in particolare riguardo alle sequenze degli scontri a Jedha) fino alle numerose allusioni alla guerra in Vietnam nella parte finale durante la battaglia di Scarif. Non mancano le chicche per i fan della saga, a cominciare dalla lunga serie di easter eggs disseminati per tutto il film fino alla rappresentazione di Jedha, con i suoi malinconici templi Jedi ormai in macerie che donano al pianeta un'atmosfera post-apocalittica. L'arrivo di Vader getta un'ombra mortifera sul film che raggiunge il suo apice nel finale: è come se i ribelli avessero un bersaglio disegnato sulla fronte che diventa progressivamente più visibile, palesandosi definitivamente con l'ineluttabilità della tragedia che segue all'arrivo del tanto atteso boia, una Morte Nera che nella messa in scena del regista richiama il pianeta Melancholia del film di von Trier, arrivando come una stella lucente e bellissima a mettere fine a ogni cosa con la sua smisurata potenza lasciando i personaggi e gli spettatori ad ammirare l'inevitabile catastrofe.
Qualche anno fa i catastrofisti della prima ora pronosticarono uno sconvolgimento dello spirito originario della saga in seguito all'acquisto dei diritti da parte della Disney, ritenuta senza senza reali ragioni una sorta di male assoluto. Sotto questo punto di vista Rogue One ci consegna la migliore smentita possibile certificandosi come un film perfettamente incardinato nella mitologia di Star Wars, che assume un tono più adulto e cupo incaricandosi di raccontare l'eroismo di una squadra disposta all'estremo sacrificio pur di cambiare la Storia; lo fa mettendo il gruppo davanti ai singoli e l'azione davanti alla riflessione, finendo per essere, grazie alla sua ottima messa in scena, uno dei migliori esempi di action contemporaneo.
Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana… Ci si aspetta John Williams e l’iconica scritta gialla ingenuamente prospettivizzata. Invece nulla. Si passa però al consueto piano fisso sullo spazio profondo, movimento di macchina a salire, eccola, la pancia triangolare di uno Star Destroyer. Macché. Un altro movimento di macchina smaschera l’inganno, è la sezione di un anello planetario. E quando irrompe la musica di Giacchino, Williams rimane una minaccia fantasma, soffocata sul nascere. Rogue One chiarisce subito, insomma, con un misto di ironia e orgoglio, che non sarà il solito star wars. E in effetti non lo sarà. Essendo un episodio non ufficiale della saga, uno spin off, i margini di manovra, in termini di impostazione e soprattutto di mood, sono assai più ampli del solito. Gareth Edwards ne approfitta e compie un’operazione non dissimile da quella che aveva caratterizzato il suo Godzilla: prosciuga il contesto originario dei suoi aspetti più ingenui, infantili e ironici per calarlo in una seriosità che rischia di essere spiazzante, visto che anche gli alleggerimenti comici, affidati come di consueto ai droidi, sono virati al disincanto e al cinismo di K-2SO.
Strutturalmente, Rogue One ha una bipartizione piuttosto tradizionale, che fa molto trilogia classica, con una sezione iniziale preparatoria e la seconda in cui irrompono l’azione e l’eroismo ma, di nuovo, in modo divergente rispetto al modello. La prima parte è del tutto priva di leggerezza, di respiro e rischia di soffocare un po’ il film sotto una coltre di fatica e di noia. La seconda segue dinamiche, anch’esse, piuttosto sedimentate (barriere/scudi da disattivare, salvataggi all’ultimo minuto) ma la consueta epica è inquinata dalla ricerca di realismo (gli AT-AT hanno una fisicità inedita, solo per fare un esempio) e da un epilogo tragico che inaugura una nuova speranza proiettandoci un’ombra retroattiva fin troppo amara, forse. Perché il punto è un po’ questo. Il film di Edwards, cioè, può essere letto come la dovuta – e fisiologica – perdita dell’innocenza cinematografica di Star Wars, saga della quale mostra il lato oscuro. Ma forse sarebbe meglio dire umano. Niente Forza, niente Jedi, niente spade laser ma, al loro posto, manovalanza ribelle, working class heroes sacrificabili (e sacrificati) in nome della causa.
Come si diceva, però, l'effetto è un po' spiazzante e questo StarWars-non-StarWars, oltre a non essere irreprensibile dal punto di vista della fluidità del racconto e a non costruire adeguatamente personaggi destinati all'autoconclusione, rischia di sbilanciarsi troppo dalla parte del non. Ed è superfluo puntualizzare quanto la starwarsità di Star Wars sia un elemento imprescindibile, la conditio sine qua (non) è forse impossibile godersi l'Universo creato da George Lucas. Edwards lo sa e, in effetti, inserisce un po' pretestuosamente elementi classici: da Peter Cushing e la giovane Carrie Fisher digitalizzati, passando R2-D2 e D-3BO fino ad arrivare ad altri agganci narrativi only for fans e all'Icona delle Icone, Darth Vader, che però, visto il contesto, non sfugge del tutto all'effetto cosplayer.