TRAMA
In Inghilterra, in una casa di riposo per cantanti lirici e musicisti, si ritrovano amici, ex colleghi, ex rivali, ex coniugi.
RECENSIONI
Metti il debutto capriccioso dietro la macchina da presa di uno dei grandi attori della Nuova Hollywood, oggi un po’ defilato. Metti una pièce di sir Roger Harwood (autore teatrale - l’ormai classico moderno Il servo di scena - e sceneggiatore - l’oscarizzato adattamento de Il Pianista -). Metti un complesso di meravigliosi attori britannici, da Maggie Smith a Tom Courtenay, da Michael Gambon a Pauline Collins e ottieni Quartet, pimpante commedia agrodolce tutta giocata sui bisbetismi di un gruppo di vecchie glorie della musica orchestrale e lirica confinate in un ospizio di lusso.
Prevedibile catalogo di tipologie (l’innamorato da sempre, la diva fintamente arcigna, l’irriducibile satiro, la soave rincoglionita) che incrociano ruggini nuove ed antiche: il quartetto storico che, esibendosi, salverebbe l’istituto dalla chiusura, sarò in scena o no?
L’impianto è classico, le dinamiche tutte telefonate, il regista affidandosi alle battute e ad alcuni momenti corali deliziosi e, ça va sans dire, agli interpreti (Hoffman ha dichiarato che il suo film nasce soprattutto come lavoro su di essi) che vanno di pilota automatico, giocando, in modo un po’ prevedibile, su certi registri-macchiette in cui il cinema, negli ultimi anni, tende a sacrificarli. La professionalità è insomma indubbia, i guizzi elargiti col contagocce.
La vecchiaia non è roba per femminucce, citando Bette Davis: le stelle di ieri allora fingono di sgomitare, sapendo bene che l’alternativa sarebbe la vuota attesa di una morte che, come l’agognata esibizione del quartetto finale, rimane pudicamente fuori dal quadro.
