Drammatico, Netflix, Recensione

PIECES OF A WOMAN

Titolo OriginalePieces of a Woman
NazioneCanada, Ungheria
Anno Produzione2020
Durata128'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Martha e Sean Carson, una coppia di Boston, sono in procinto di avere un bambino. La loro vita cambia irrimediabilmente durante un parto in casa, per mano di un’ostetrica confusa e agitata che verrà accusata di negligenza criminale. Comincia così un’odissea lunga un anno per Martha, che deve sopportare il suo dolore e al contempo gestire le difficili relazioni con il marito e la dispotica madre, oltre che confrontarsi in tribunale con l’ostetrica, divenuta oggetto di pubblica denigrazione.

RECENSIONI

Pezzi di donna. A dire il vero sono tante le donne di cui Mundruczó, nel suo primo film anglofono, tratto dalla pièce della compagna Kata Weber, racconta le fratture: c’è Yvette, primogenita di una coppia mal assortita di Boston, morta a pochi minuti dal parto, i cui resti diventano, sadicamente, campo di battaglia familiare; c’è Elizabeth, matrona sopravvissuta all’olocausto, nonna di Yvette, incapace di immaginare una risposta al lutto al di fuori del vitalismo più volitivo; c’è Eva, ostetrica a domicilio tutta zucchero e carezze, finché non avviene l’irreparabile. E naturalmente c’è Martha, una Vanessa Kirby dolente e virtuosissima, della cui maternità mancata il film di Mundruczó è lo spietato esame autoptico: nel prologo, quando fa volteggiare la sua mdp, in pianosequenza, attorno a un travaglio raramente così realistico (e quindi epidermico, e terribile, per una mezz’ora vissuta in apnea); poi dopo i titoli di testa, da cui prende avvio la cronaca di un disfacimento progressivo, della fine di un matrimonio (con Shia LaBoeuf, altrettanto sfatto e generoso); infine con un terzo atto - con l’ostetrica sul banco degli imputati, rea di presunta incompetenza - in cui si afferma una via all’elaborazione del lutto che rifiuta di giustiziare capri espiatori, o di passare per la vendetta. Perché a Mundruczó non interessa il processuale o il pamphlet (pro o contro parto domiciliare, poi?), ma solo la radiografia di un’assenza, o una falsa partenza. La partenza, quella vera, comincia già nei simbolismi smaccati e letterali disseminati nel racconto: la primavera che irrompe, un seme che germoglia, i due capi di un ponte che, finalmente, si incontrano nel mezzo.

Pieces of a woman è un processo, una confessione, una catarsi autobiografica, un saggio su cosa tiene insieme -coppia, famiglia, individuo- e cosa disfa, disperde, rende irreparabile.
La stessa forma, e formalizzazione, del racconto in immagini avviene per analogie, per corrispondenze che dispiegano un tessuto di simboli -e sulla stessa scia della narrazione, che si vuole interpretativa, ricorderemo quel symbolon etimologico che per la Grecia antica era un frammento, un coccio, la spezzatura di un contrassegno che, rimessi insieme i pezzi, costituiva un tutto e una validazione-. Così, nel percorso di Martha-Vanessa Kirby che deve ritrovarsi e ricostruirsi dalle ceneri di una perdita, il germoglio è la nascita, il seme è la vita, la mela è il tutto, il ritorno edenico al sé condannato alle doglie e alla morte, in un’immagine di grazia declinata interamente al femminile a partire dal cerchio famigliare e generazionale ricostruito, sbarazzatasi dello Sean-Shia LaBoeuf cane di strada per il quale nessuno guiderà mai una rivolta contro il White God di un’upper class che lo rigetta. Il suo desiderio di famiglia, della propria “tribù”, come la definisce, unica appartenenza e unica “cosa che conta”, è l’attraversamento del ponte che sta costruendo (“ho promesso a mia figlia che sarà la prima ad attraversarlo”); ma quel ponte, la cui immagine ricorrente scandisce i passaggi temporali del film, si chiuderà soltanto quando sarà uscito di scena, nel freddo di una Boston distante, sottofondo grigio e sinfonico, con luci in lontananza, come una New York grayana.

Nel lasciare l’Ungheria per la sua prima produzione americana con la firma di Martin Scorsese, Mundruczó cambia lingua e prospettiva, internazionalizza il cast, limita lo sbalzare di zoom e camera a mano, ma non rinuncia a ventitré minuti di piano sequenza di un parto, mettendo in scena, dolore, ansia, complicità e solitudine, desiderio, paura, forza, tragedia, in un incipit che, se con il ralenti maestoso e terrificante di un Antichrist era prologo, qui è invece, manifesto, come lo stesso regista lo definisce. “Manifesto spirituale” del dirigere, girare, avere cura di immagini, attori, tempo, vedere una creatura emergere dal proprio amore. Ed è indicativo, nel sistema di segni del film, che il ritrovamento dell’immagine della bimba perduta corrisponda al suo riaffiorare in camera oscura, dalla fotografia analogica che è materia e traccia dell’immateriale, di ciò che non c’è più, ma il cui ricordo è potentissimo: trascinati nel lutto, anche noi, come Martha, avevamo dimenticato il meraviglioso momento dell’incontro, della conoscenza pur brevissima della neonata che abbiamo visto nascere. Alla collocazione esatta di tracce, temi e passaggi temporali -perfino lo smalto nero di Martha si scrosta progressivamente fino a mostrare, nel momento della riconciliazione, la mano nuda che stringe quella materna- fa da contrappunto un senso di dislocazione, di slittamento dalla coppia, alla donna, a Martha, alla famiglia, al principio femminile su cui il regista intendeva soffermarsi, a partire dalla sceneggiatura che vede autrice sua moglie Kata Wéber e che ha in premessa un avvenimento personalmente vissuto non sovrapponibile, ma analogo a quello narrato del film.

E vale forse più questo senso di dispersione, di distanza da tutto che invade la protagonista e di riduzione all’impotenza nei suoi confronti, dell’esatta rete di rimandi che lo contiene; e, più della quadratura del cerchio e della saldatura dei ponti previa estromissione maschile, un senso di compimento avviene nell’assoluzione di un’altra figura di donna, l’ostetrica Eva, nei confronti della quale si era riversato in forma di rivalsa il desiderio di colmare un vuoto tramite un tribunale e con la garanzia di un avvocato -donna- potente. Ne deriva un senso di libertà riabilitante, nonché di forza, di quella forza rievocata dalla madre nel drammatico racconto-colpo di scena che irrompe nella catatonia di Martha per ricordarle che non può, bensì deve farcela. Il resto è evocazione di un idillio. Cosa c’è dietro un albero di mele mosso dal vento non lo sappiamo mai; o, forse, l’abbiamo appena visto.