TRAMA
Colombia del Nord, 1968. In una comunità di etnia wayuu il giovane Rapayet vorrebbe sposarsi con una giovane appena entrata nella vita sociale. Tuttavia l’uomo deve procurarsi una dote cospicua e per questo si avvia in cerca di animali con un amico fraterno. Lungo il viaggio i due scoprono la commerciabilità della marijuana locale, oggetto d’interesse di alcuni americani di passaggio…
RECENSIONI
«Un film di gangster e spiriti», lo definiscono Ciro Guerra e Cristina Gallego. Dopo El abrazo de la serpiente, di cui il primo era regista e la seconda produttrice, i due firmano insieme la regia e cambiano radicalmente sia l’approccio stilistico che quello tematico, teorizzandone proprio l’opportunità: «Volevamo girare qualcosa di diverso - così Guerra - (...). I registi contemporanei tendono a ripetersi, a riproporre sempre le stesse cose. Volevamo qualcosa che ridefinisse i nostri confini». Ecco allora la genesi di Oro verde - C’era una volta in Colombia, traduzione commerciale italiana di Pájaros de verano (Uccelli d’estate), che nella presenza animale riprende il serpente del titolo precedente. La storia ricostruisce la cosiddetta “bonanza marinbera”, gli anni colombiani che vanno dal 1975 al 1985, con l’“invenzione” dell’esportazione di cannabis verso gli Stati Uniti e il commercio incentrato sul deserto di La Guajira, dove il film è girato. In questa premessa sta un pregio intrinseco del racconto, ovvero la sua posizione di sguardo: inscenare la nascita del narcotraffico assumendo la prospettiva del popolo indigeno wayuu, con il protagonista Rapayet e la coralità che gli gira intorno, ribaltando totalmente la modalità di racconto nordamericano sul tema, attraverso una “soggettiva” che - per forza di cose - non si era mai vista finora. In verità, pur nelle intenzioni differenti, la strategia di calarsi nelle figure autoctone e quindi inedite, mettendo film e spettatore nei loro panni, ricorda molto El abrazo nell’atto di “entrare” nello sciamano Karamakate e guardare coi suoi occhi. Questo procedimento in sé insinua alcuni elementi di sabotaggio che, seppure rispettando il genere (come detto il gangster movie), allo stesso tempo lo spiazzano con scenari che provocano slittamenti di senso: il più evidente è qui nel carattere matriarcale della famiglia criminale, impensabile altrove, e in particolare nella figura di Ursula, madre che tira le fila della vicenda (e soprattutto decide), non a caso chiamata dalla co-regista una “Godmother”.
La parabola della famiglia criminale viene introdotta e conclusa da un cantastorie, classica figura corifea che la colloca nella zona del moral play (è l’avidità a portare Rapayet e il suo nucleo alla rovina). Nell’arco degli anni si snoda dunque una crime story che ripassa i codici di genere, ascesa e caduta, passando per alleanze e tradimenti, omicidi e gesti di pietà, appagamento e ambizione, fragile pace e guerra tra bande che se innescata è senza ritorno. Ma in Pájaros de verano il compito ossequioso verso il noir dialoga con il lato animistico della vicenda, con il ruolo della tradizione non come retaggio mentale, ma in quanto dato concreto e presente, qui e ora. Un particolare uccello si posa su un ramo? Va letto come profezia sul corso degli eventi, e non si tratta di una vaga ipotesi sovrannaturale bensì di una certezza scientifica che infatti accade. È in questa società degli spiriti che si innesta il meccanismo di genere. Oro verde, progetto in odore di Garcia Márquez, soffre però di uno squilibrio evidente: il “film di spiriti” suona indubbiamente solido, apre squarci visionari e consegna sequenze di estrema suggestione (tra le altre: il ballo rituale di Zaida, una splendida Natalia Reyes, che già all’inizio apre e chiude la partita visiva; l’esumazione del cadavere dissotterrato dalle donne; tutti i momenti onirici); il “film di gangster” diviene presto ricalco di un congegno usurato, che avanza a passo previsto, percorre le tappe senza ravvivarle e non evita prolissità (la durata è eccessiva). Il rapporto tra realismo e magia non è sempre osmotico, ma spesso i due volti scorrono su binari paralleli che si sfiorano appena: e così l’ennesimo gangster movie dei nostri anni stenta a diventare rilevante per la sola collocazione nel contesto peculiare.