Documentario, Sala

N-CAPACE

NazioneItalia
Anno Produzione2015
Durata80’
Interpreti
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Anima in Pena intervista giovani e anziani a proposito di vita, morte, sesso, lavoro, famiglia.

RECENSIONI


Anima in Pena porta con sé un letto e un piccone. Indossa un pigiama, una toga, il vestito della prima comunione, foto della madre per coprire il volto. Si rannicchia sul marciapiede e si sdraia in una vasca da bagno, nuda e ricoperta di biscotti. Anima in Pena è la maschera che Eleonora Danco sceglie per penetrare il tessuto culturale e sociale contemporaneo. Di spalle, in una spiaggia deserta, chiede alla madre defunta il permesso di fare il bagno in mare dopo mangiato. Qui comincia un percorso di immersione in cui reale e surreale si toccano. A interessare la regista romana sono i volti e gli spazi. I rapporti fra i pieni e i vuoti. Collocati di fronte alla macchina da presa che li osserva impassibile, isolati in inquadrature in campo medio, o catturati dal primo piano, attori non professionisti rispondono a una serie di domande che riguardano il rapporto con i genitori, l’immagine della propria morte, l’aldilà. E ancora il sesso, l’omosessualità, il lavoro. Le domande sono spesso le medesime, in ordine sparso.  Eliminate le generazioni intermedie, Danco si concentra su adolescenti e anziani – fra i quali c’è anche il padre, che si schermisce e si ritrae, ma accetta di vestirsi da astronauta insieme alla badante che vive con lui da anni. In alcuni casi, a separare le due generazioni, ci sono più di cinquant’anni.


Quel che ne deriva è un’indagine socio-antropologica che accenna più che descrivere, attraverso un montaggio che enfatizza i punti di contatto e le disparità fra gli intervistati. Nelle parole degli adolescenti a rimbombare è soprattutto il vuoto. Alla domanda “che cosa fai al pomeriggio?”, la risposta più frequente è “niente”. Un ragazzo sogna di aprire una bisca. Una ragazza ricorda a malapena il titolo di un libro. Tutti odiano la scuola, l’influenza della politica è assente. L’italiano è maldestro. L’ignoranza dilaga. Perso, o irrimediabilmente offuscato, è un qualsiasi orizzonte comune, quello che la civiltà contadina, cui l’altra generazione appartiene, sembrava ancora poter offrire. I ricordi degli anziani evocano, e al tempo stesso creano, un’atmosfera e un’aura di cui i racconti dei più giovani sono inevitabilmente sprovvisti. Fra le righe emerge piuttosto una continuità generazionale deteriore che va dall’accenno alle violenze domestiche sulle donne a un rapporto accidentato con il mondo del lavoro fin dalla più tenera età.


Ma davvero agli uomini interessa qualcos’altro che vivere?”. Pasolini se lo chiedeva nel finale di Comizi d’amore, il documentario sulla sessualità che sollevava il velo sulla pruderie bigotta della classe borghese, mettendola a confronto con la schiettezza dei membri delle classi subalterne. Di N-capace – esordio registico cinematografico dell’affermata autrice teatrale/attrice/regista/performer Eleonora Danco –, il film-inchiesta di Pasolini è un progenitore ideale. Danco livella le differenze di estrazione sociale e accorcia l’orizzonte geografico rispetto al tracciato nord-sud pasoliniano. Si concentra su un altro divario, non più economico ma generazionale. Sceglie volti della classe popolare, e si muove fra le strade di Roma e le periferie laziali. Estende il raggio delle domande, che vanno da questioni esistenziali a facezie quotidiane, e resta fuori campo mentre gli altri parlano. Quando Danco compare, si muove per spazi più o meno noti, attraversando brutture architettoniche contemporanee, come il mercato del Testaccio, eretto a simbolo di una città che seppellisce senza ritegno il proprio passato. Il soprannome che si attribuisce, “Anima in Pena”, è lo stesso che Eduardo de Filippo aveva regalato a Pasquale Lojacono, il protagonista della commedia Questi Fantasmi!.


Eppure N-Capace, percorso dalle sonorità elettroniche del musicista tedesco Markus Acher, emana un’insolita vitalità, che trasporta il film oltre i meccanismi dell’inchiesta giornalistica e del reportage. Un esperimento interessante nello stantio panorama cinematografico nostrano. Percorso da un filo di sottile ironia, sorretto dal senso del grottesco e da una tensione dissacratoria, per certi versi si colloca a metà strada fra Buñuel e gli esperimenti di Cinico Tv. Le domande sono imbarazzanti, intime. Le risposte lasciano spesso di stucco. La macchina da presa le accoglie senza trasformare l’intervista in un gioco farsesco ai danni dell’interlocutore. L’ironia deriva semmai dal senso di sospensione e di attesa che segue le parole degli intervistati. Nella programmatica decontestualizzazione dell’arte classica, e nella costruzione degli spazi urbani, Danco paga, invece, il suo debito alle piazze e alle statue di De Chirico. Uno scenario straniato e straniante, in cui il surreale emerge dal collage del reale, dall’accostamento inedito di corpi e oggetti, e da disallineamenti appena percettibili.