TRAMA
Mr. Bean, improbabile custode alla National Gallery di Londra, deve accompagnare oltreoceano il dipinto di Whistler “La madre”, prestato ad un museo di Los Angeles. Ma non basta: i suoi superiori, ansiosi di sbarazzarsi di lui, allo scopo di metterlo in difficoltà lo spacciano per un illustre critico d’arte…
RECENSIONI
L'uomo che nessuno di noi vorrebbe incontrare, l'uomo che tutti (almeno una volta nella vita) vorremmo essere. Di inglese, Mr. Bean ha il passaporto (memorabili le sue foto formato tessera) e una certa dose di aplomb (che perde in pochi istanti quando si sente minacciato, vedi la scena in aeroporto): ma nella sua capacità di combinare disastri che, seppur involontari, si succedono con precisione cronometrica è assolutamente apolide. Egoista come Scrooge, sospettoso e malevolo, suscita ilarità e un po' di invidia, proprio perché è libero di fare quello che vuole: una libertà che solo bambini, pazzi e genialoidi possono permettersi con tanta leggerezza (incoscienza?). L'attore Rowan Atkinson ha ideato, sull'onda dei ricordi personali legati alle scuole private britanniche (dice lui), un personaggio che, per tempi comici, tormentoni e duttilità trova pochi confronti nel panorama comico contemporaneo. La verve di un simile "mostro" si esprime forse al meglio in televisione, attraverso scene brevi e perfide, concepite come un crescendo di tensione umoristica che si scarica in una catastrofe improvvisa, irresistibile. Cucire le gag in una struttura coerente, che conceda spazio anche ad altri personaggi (l'omino inglese, per sua natura, è una primadonna assoluta) e magari riesca anche a dire qualcosa di nuovo (in senso letterale, qui Bean parla!), era davvero un'impresa. Tutto sommato, gli sceneggiatori Curtis (autore di "Quattro matrimoni e un funerale") e Driscoll se la cavano con onore, anche se non resistono alla tentazione di copiare senza ritegno dalle serie televisive (l'esplosione del tacchino) e ci propongono l'ennesimo ritratto di famiglia americana un po' in crisi e, in ultima analisi, un'esaltazione (con moderazione e una punta di disillusione, per fortuna) dei buoni sentimenti e dell'accettazione dell'alieno (Bean è quasi un infiltrato nel mondo degli adulti dato che, fra le altre cose, dorme con un orsacchiotto). Anonima la regia di Smith; piacevole il cast di contorno, con tanto di apparizione di Burt Reynolds.
Rowan Atkinson ha inventato un personaggio comico che resterà nella storia del cinema come Charlot, Buster Keaton, Stanlio e Ollio, Jerry Lewis e quel signor Hulot cui dichiara sempre d’ispirarsi: snodata gestualità, rapporto disastroso con gli oggetti, assenza di favella, perfidia bambinesca. Gli sketch di Mr. Bean, iniziati nel 1989, hanno conquistato il mondo, sdoganando un tipo di risata fomentata dal politicamente scorretto. Inetto, demente, squallido, dispettoso, apparentemente privo di emozioni se non di cattiveria capricciosa, Bean è protagonista di una serie di gag geniali con cui l’inimitabile mimica di Atkinson, fatta di boccacce ed espressioni goffe, elabora il personaggio nelle situazioni quotidiane più banali, da trasformare in apocalittiche odissee con sguardo impietoso, senza commenti o conciliazioni con il buon sentimento. Il debutto cinematografico è spassoso quando il suo faccione compare in primo piano su grande schermo, quando s’inventa l’assurdo davanti allo specchio magico nella stazione di polizia, saluta gli americani con il gesto del “vaffanculo” (credendo sia il modo locale di fare ‘ciao ciao’ con la manina), ripone candidamente il proiettile nelle carni del poliziotto e maneggia il quadro di Whistler. Rispetto però alle comiche televisive semplici, dirette e sorprendenti, gli autori hanno sentito la necessità d’approntare una stampa “hollywoodiana”, fondata su di un banale racconto con comprimari e giocata sul desueto meccanismo dei disastri dell’idiota che ricopre una funzione importante per errore. Mr. Bean, inoltre, è reso più innocuo e accettabile, trasformato in eroe “suo malgrado” e con moti di cuore, di bambinone troppo cresciuto con “psicologia” schematica che annichilisce le sue libere associazioni in dinamiche più prevedibili e forzate. Inoltre, parla, con tanto di discorso finale pro valori della famiglia. La vestizione con gli stereotipi d’oltre oceano, però, pare anche un atto cosciente dei creatori/sceneggiatori Atkinson e Richard Curtis che si/ci prendono in giro e disseminano una caustica acidità tutta inglese sulla dabbenaggine e rozzezza americana, con gli inglesi contenti di spedire un “pacco” d’uomo, con la scena perfida del mercante che s’inventa i gadget per il quadro, con “La madre” che è allegoria della Gran Bretagna che torna per vendicarsi delle figlie colonie, con la scena del militare miliardario che compra il quadro e applaude alle stronzate di Bean, compresa quella sulla famiglia (appunto). Se l’autoironia non va sempre in porto, è dovuto alla messinscena non proprio raffinata di Mel Smith.