Commedia, Grottesco, Sala

MISERERE

Titolo OriginaleOiktos
NazioneGrecia
Anno Produzione2018
Durata97'

TRAMA

Un avvocato di successo, con la moglie in coma, scopre la bellezza di essere compatito.

RECENSIONI

PLAYING THE VICTIM

Il protagonista senza nome piange. Vuole essere compatito: questo lo appaga. È una vittima. Non sappiamo com’era prima, l’avvocato di Miserere, lo vediamo solo ora in medias res: in un pianto disperato,all’inizio come alla fine, perché sua moglie è in coma. Babis Makridis, già regista di L su un uomo che vive in macchina, opera con Efthymis Filippou ovvero lo sceneggiatore di Lanthimos, ma al contrario del regista de La favorita non va a Londra e resta in Grecia: rimane, anche esteticamente, nella zona di quel cinema. Il titolo originale Oiktos significa compassione: è questa per l’esattezza la reazione che cerca l’anonimo protagonista. Disperatamente. Fa la vittima con tenacia, vi trova realizzazione, si abitua e crogiola, coltiva perfino una cultura del dolore per cui non c’è musica allegra, si ascoltano solo note tristi. È in fondo consapevole come il palco delle relazioni umane sia appunto teatro: per la torta della vicina si mette in posa davanti alla porta. Aspetta un Godot che arriva sotto forma di carezza degli altri. È qui il punto: dopo un pregresso che non ci è noto, egli ha trovato nella moglie malata l’unico pretesto di gentilezza, di contatto con l’altro, la sola forma di empatia. Una solidarietà che il quotidiano non prevede, però se la assaggi è dura tornare indietro: quando la donna si sveglia e la carezza non arriva più, ecco il problema. In una normalità indifferente il protagonista è ormai un tossico della compassione, non può farne a meno: la oiktos è la sua dipendenza, il suo masochismo, deve sentirsi dire “poverino”. Così prova a continuare la recita interrotta slittando e proiettando, baciando uno sconosciuto esanime al posto della moglie, come per i defunti sostituiti di Alps (scritti sempre da Fillippou) ma al contrario, qui è il vivo morente che si vuole rimpiazzare. Egli esagera, spera in tragedie, mente, concretizza il sentito dire della disgrazia e va in iperbole («Mia moglie è in coma e ha anche un tumore»), ma senza i presupposti ottenere compassione non è possibile. Fino all’estremo finale.

Miserere si dispiega tra farsa e commedia, risata e lacrima, movimento e stasi. Makridis gira per piani fissi, con sguardo gelido, si affida al volto illeggibile di Yannis Drakopoulos, prosegue il discorso di Miss Violence di Avranas con altra voce: se lì un suicidio faceva emergere la feroce contraddizione, qui una non morte deforma il racconto in grottesco. E, soprattutto, Oiktos rimesta beffardamente nella cultura della vittima. Quella che Kirill Serebrennikov rendeva letterale in Playing the Victim col protagonista che fa la vittima sulle scene del crimine; quella che Bret Easton Ellis in Bianco chiama “epidemia di autovittimizzazione”: «Fare la vittima è come una droga – ti senti così bene, attiri così tanto l’attenzione del prossimo, finisce davvero per definirti, è una botta di vita, e ti fa sentire perfino importante nel momento in cui mostri le tue presunte ferite in modo che la gente possa leccartele. Non hanno forse un sapore così buono?». Il “sapore” di Makridis è evidente e sfacciato (il Requiem di Mozart, l’abito nero) ma per scelta, perché questo è il nuovo cinema greco oggi: non più nuovo, certo, in coda di un’onda emersa dieci anni fa, basato su un’unica idea che sorregge il racconto eppure ancora spietatamente piantato nel contemporaneo. C’è una vittima che fa la vittima. E alla fine fa vittime. Sarebbe tragico, se non fosse comico e sottilmente ridicolo.