TRAMA
RECENSIONI
La casa in cui giunge la famiglia Yi, trasferitasi dalla California all'Arkansas rurale in cerca di fortuna, non è proprio la casa dei sogni che Jacob aveva promesso a sua moglie. A ben guardarla, in effetti, non è neppure una casa: ha le ruote, «come le automobili», notano immediatamente i figli David e Anne. Loro però sono giovanissimi, probabilmente nati già in territorio americano e hanno assorbito gli elementi della cultura sudcoreana solo di riflesso, attraverso i genitori; parlano quasi sempre in inglese e sono molto più propensi al cambiamento. Insomma, per loro è facile mettere nuove radici (anche all'interno di quattro mura senza fondamenta), è facile adattarsi e attecchire in qualsiasi territorio; come il prezzemolo giapponese che dà il titolo (e il senso) al film, capace di crescere ovunque con estrema semplicità.
Terreno ostico, quello di Minari: la ricerca del tocco delicato e dello sguardo poetico e intimista sulle cose rischia sempre di deragliare in immagini pretenziose, artificiose, immature. Tuttavia, nel portare sullo schermo un racconto fortemente autobiografico (il regista è di origini sudcoreane, ma nato a Denver, e ha trascorso gli anni della giovinezza proprio nell'Arkansas), Lee Isaac Chung riesce a trovare la giusta distanza dai suoi personaggi, facendosi/ci coinvolgere emotivamente in modo onesto e trasparente e soprattutto riuscendo a scansare quasi sempre il facile patetismo di chi rievoca la propria infanzia con gli occhi disincantati dell'adulto. Lee ha la sensibilità giusta per comprendere il valore degli interpreti a sua disposizione (tutti straordinari, ma è Yoon Yeo-jong a rubare la scena), e l'intelligenza di farli brillare mettendosi a loro disposizione, preferendo silenziosi e pacati primi piani ai virtuosismi stilistici e alle esasperazioni emotive.
Insomma, la scelta di sguardo è buona e giusta. Il regista non calca mai morbosamente la mano sui piccoli grandi drammi e sulle incomprensioni private che si consumano all'interno della famiglia e osserva ora uno ora l'altro dei suoi componenti per modulare intelligentemente il registro del racconto, così da trasformare un violento litigio tra marito e moglie in una giocosa e infantile, quantunque preoccupata, supplica di serenità scritta su un aereoplanino di carta. In questa (a volte fin troppo) lucida alternanza di punti di vista (le ambizioni del marito, il disorientamento della moglie, l'entusiasmo dei bambini, l'inconsapevole spaesamento e l'eccentricità della nonna), sta la freschezza di un film che, soprattutto nella prima parte, quella in cui si narra attraverso l'osservazione (e non viceversa), trova una genuinità decisamente insperata. Perfino l'ennesima messa in discussione del sogno americano, inseguito con convinzione da Jacob nel suo volersi assicurare un'indipendenza economica attraverso i prodotti della sua terra, non assume mai i toni del cinismo stucchevole e di un pessimismo che ormai è talmente evidente e diffuso nel tessuto culturale e sociale quotidiano da risultare, in questi termini, ben poco interessante. Il caso è ostile ai desideri dell'uomo, ma ci sono dei luoghi, degli oggetti, delle tradizioni, perfino delle piante, da cui è sempre possibile ripartire, con speranzosa rassegnazione.
Minari non è dunque un film grande o memorabile, né vuole esserlo. Alla lunga certo paga il suo incedere pacato e la sua mancanza di ambizioni, non riuscendo forse a far attecchire pienamente, nello spettatore, le radici emotive che vorrebbe coltivare. È però un film intimo e consapevole: della bravura dei suoi interpreti e di come valorizzarli, del tempo giusto per narrare e osservare le cose, del suo avere un cuore grande e gentile, ma anche fragile; sa di non poter correre e urlare, per non rischiare di farsi male.
