Drammatico, Recensione

MANGLEHORN

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Durata97'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Un fabbro, in una piccola città del Texas, non ha mai dimenticato l’amore della sua vita.

RECENSIONI

David Gordon Green è ormai un’icona del cinema indipendente americano. Linea di demarcazione, in una carriera incerta sulla direzione da prendere (nel suo curriculum anche le commedie Strafumati e Lo Spaventapassere), l’Orso d’Argento per la Migliore Regia ottenuto alla 63esima Berlinale con Prince Avalanche che evidenzia i tratti di quella che si può considerare la sua poetica: un’attenzione alla vita di provincia, uno sguardo vagamente consolatorio sui piccoli misfatti della quotidianità, legami spesso conflittuali tra gli appartenenti a famiglie disfunzionali. Aspetti che ritornano in Joe, grazie al rapporto che si instaura tra un apparentemente burbero Nicolas Cage e un vispo quindicenne, e anche in Manglehorn, one man show di Al Pacino, interprete di un personaggio scontroso, rude, caratteriale, incapace di scendere a patti con il proprio egocentrismo. Un uomo ormai anziano che vive di rimpianti: ha lasciato la donna che si è reso conto solo successivamente di amare, non ha dato al figlio l’amore e la solidità di cui aveva bisogno, non riesce a trovare un centro e a dare un senso, e una svolta, alla propria vita, ridotta a una quotidianità priva di ogni stimolo vitale. Il film racconta la sua presa di coscienza, il raggiungimento di una consapevolezza salvifica in grado di aprire spiragli su un futuro se non proprio sereno comunque pacificato con il passato e indirizzato al nuovo. Quando all'inizio del film lo vediamo prendere la posta con noncuranza da una buchetta delle lettere invasa da un alveare sappiamo che prima o poi quelle api scompariranno, il grigio si ridimensionerà e l'ordine tornerà, nei piccoli gesti ripetitivi di ogni giorno come nel marasma interiore che lo blocca in un'immobilità a stretto confine con la depressione. Vedere recitare Al Pacino è sempre un piacere, essere testimoni della sua padronanza scenica nel donare verità a un personaggio in modo sottile, curando ogni singolo dettaglio, è un'esperienza appagante. Il suo lavoro di sottrazione regala credibilità ai gesti e alle parole. Nonostante ciò, la cassa di risonanza offerta dal cinema non è sufficiente per rendere il protagonista interessante: non è abbastanza duro per allontanare, ha troppe motivazioni per suscitare curiosità e pochi lati davvero oscuri per scatenare interrogativi. Finisce, insomma, per essere né carne, né pesce. Una sorta di vicino di casa con cui non abbiamo scambiato mai più di un saluto nonostante anni di vicinanza. Perché quindi diventarne complici sullo schermo? La sensibilità del regista è evidente, così come la sua volontà di trovare verità nell’assenza di grandi eventi, ma le metafore un po’ troppo scontate (il fabbro che apre tutte le porte tranne quella del suo cuore, quella barca in cerca di approdo), le stranezze che stridono (la dichiarazione d’amore cantata in banca, il mimo) e un flusso di coscienza che non assume mai connotati di intensità, non fanno che alimentare l’iniziale indifferenza.