TRAMA
Sicilia, primi anni Quaranta. Il giovanissimo Renato concepisce una passione “matta e disperatissima” per la figlia del suo insegnante di latino, conturbante vedova di guerra, oggetto del desiderio e pietra dello scandalo del borgo di Castelcutò.
RECENSIONI
Dopo le ferie "oceaniche", Tornatore ricomincia dalle (sue) origini, apparentemente: ricostruzione d'epoca raffinata, per non dire calligrafica, vicenda d'ambiente siciliano con dialoghi in dialetto, filtro onnipresente (e a volte asfissiante) del ricordo, il tutto pensato per il mercato internazionale (coproduce la Miramax), da sempre sensibile al fascino dell'antiquariato di provincia. Ma in Malèna è possibile trovare tracce del grande assente di quasi tutti i precedenti film del regista, certamente di Nuovo cinema Paradiso, vale a dire il senso dell'umorismo. Pur senza rinunciare agli stereotipi della narrazione cinematografica romanzesca (la voce fuori campo, le scene d'iniziazione emotiva ed erotica), la regia combina con un gusto meno scontato del previsto momenti di canonica commozione (alcuni davvero riusciti, sobri e sconvolgenti, come la scena del linciaggio) e pause di pungente autoironia, in cui vengono derisi, attraverso un uso grottesco delle iperboli, i luoghi comuni dell'arte sacra (la Pietà) e del cinema d'epoca (i primi seni al vento, le velleità dei polpettoni storici e le improbabili acrobazie dei film d'avventura), e più in generale gli schemi legati alla visione che da sempre i maschietti hanno dell'altra metà del cielo, esemplificati dal binomio santa/puttana (ed ecco Malèna immaginata di volta in volta come Maddalena pentita ma non troppo, come Madonna portata in processione, come Giovanna d'Arco dai capelli a caschetto). La passione di Renato per la bella Malèna viene trattata senza eccessivi stilemi tragici e soprattutto senza morbosità, con un tono divertito e complice e una buona dose di realismo magico che non cerca di attenuare l'impatto (piuttosto forte) delle sequenze erotiche ed allo stesso tempo lo stempera in un sorriso appena velato dallo scorrere del tempo (Tornatore si dimostra, in questo caso, degno erede del Fellini di Amarcord, citato esplicitamente nella sequenza del cinema). La Bellucci, divinamente bella, statuaria come una creazione di Fidia, è una sorpresa: il suo volto di alabastro, magnificamente duttile, fa quasi dimenticare la voce un po' sgraziata (ma per fortuna Malèna parla poco, e quasi sempre sussurrando); efficace anche il protagonista, l'esordiente Giuseppe Sulfaro, che riesce a non sfigurare al cospetto di tanto carisma. Ma, dato che nessuno è perfetto, Tornatore avrebbe dovuto concedersi qualche attimo di ulteriore riflessione a proposito della sceneggiatura, un susseguirsi di sequenze chiave ricche di colpi di scena che non impressionano più di tanto, per giunta ammosciate da dialoghi troppo letterari per essere convincenti: e, alla fine, un'ora e tre quarti di sogni e visioni interamente costruite sul corpo della bella Monica, con contorno di macchiette paesane alla Germi, finisce per annoiare anche lo spettatore meglio disposto.
I film di Tornatore sembrano tenuti insieme dal filo della memoria. Una tessitura di ricordi che anche nel nuovo e atteso Maléna porta il regista nella Sicilia delle sue origini per raccontare, in parallelo, l'iniziazione sentimentale di un ragazzino e l'evoluzione di una donna, troppo bella e sensuale per la quotidianità di chiacchiere e invidie di un piccolo paese di provincia. Lo sguardo del regista, è però più affettuoso che critico, attento a cogliere e sottolineare con complicità i turbamenti sessuali e affettivi del piccolo protagonista, un assai disinvolto Giuseppe Sulfaro. E gli slanci emotivi e i sogni ad occhi aperti del giovane Renato, sono tra i momenti più riusciti del film, mentre la descrizione dell'ambiente familiare e della vita di paese, sembrano un po' troppo di maniera, forse calcati per soddisfare le aspettative d'oltreoceano di un'Italia "anima & core". Aspettative che il colosso produttivo Miramax, visto l'ingente investimento (si parla di una quarantina di miliardi), ha certamente calcolato di soddisfare.
Poi c'è lei, la silenziosa co-protagonista, oggetto del desiderio su cui il film e' costruito. Monica Bellucci appare perfetta nel ruolo, anche se l'ingombrante immagine di modella reginetta dei calendari non è così facile da cancellare e, nonostante gli sforzi, l'interpretazione, giocata su misura e sottrazione, non produce sempre risultati espressivi adeguati. Bisogna comunque riconoscere la non indifferente capacità del regista di raccontare una storia, in fondo piccola ma resa grande, potenza del cinema, grazie alla cura del dettaglio e alla riuscita coesione di elementi quali il montaggio fluido, la bella fotografia e la colonna sonora incisiva ed evocativa. Un insieme ben amalgamato che rende la visione, se non proprio struggente come il tono della narrazione presupporrebbe, sicuramente coinvolgente e piacevole.
Potrebbe essere la terza tappa di un'ideale trilogia della "visione": L’Uomo delle Stelle apre Il Nuovo Cinema Paradiso e identifica la Settima Arte con la donna più bella del mondo. Comune denominatore: una Sicilia memoriale, trasfigurata in uno spot estetizzante, lo stesso che fece incontrare sul set la Bellucci e Tornatore nel 1994 (per "Dolce & Gabbana"). Sullo sfondo la Storia, un’appendice che permette allegorie d'autore e dolly da kolossal. Malèna è la malìa del voyeur, dello spettatore, di “Novecento” condannato ad osservare La Leggenda del Pianista sull’Oceano). È la Malizia della commedia sexy all'italiana, vista attraverso il buco della serratura, gonfiata da un ingombrante lirismo che fa a pugni con la voglia di grottesco feroce alla Pietro Germi (il soggetto, di Luciano Vincenzoni, fu proposto all'autore di Sedotta e Abbandonata). È la santa (una madonna nella processione!) e puttana dell'ipocrita cultura siciliana, dove la bellezza è desiderata e mortificata. Oppure l'emblema del 20° secolo che ha costretto l’avvenenza a prostituirsi, oggetto del desiderio maschile impotente e ossessionato dallo sguardo (dal cinema). La soggettiva "mitopoietica" e il processo d'identificazione (con il marito lontano) del piccolo Renato si ripetono monotoni come i movimenti della masturbazione maschile prima dell’eiaculazione. In quest'onanismo non si viene mai: solo la violenza (la spietata rappresaglia di piazza) e il focus sul dramma di una donna condannata dallo sguardo altrui scuotono dal torpore. Masturbatorio è il gigantismo con cui Tornatore racconta i primi pruriti adolescenziali: Storia e critica di costume, infatti, franano nel qualunquismo e fra i seni turgidi della Bellucci che parla (recita) poco e sprizza erotismo da tutti i pori, immortalata in un artificioso quanto seducente “book”. La sega mentale, anziché essere evocativa di un’infanzia sognante, cade nel ridicolo involontario quando, contemporaneamente, affabula in modo epico, si “sporca” di provincia alla Fellini (la masturbazione collettiva, l'erezione), in un bordello wertmulleriano, nei Sogni Proibiti (semplicemente pacchiani) di Renato nei panni di Tarzan e John Wayne. Di cattivo gusto, kitsch, bozzettistico, sempliciotto e poco ispirato. Se l'amore vero è quello non corrisposto, il cinefilo ha un gran cuore e Tornatore s’accontenta del “bel corpo” del cinema per massacrarlo, senza restituirgli dignità.