
TRAMA
Bob Merrick, impenitente dongiovanni, causa involontariamente la morte del marito di Helen Phillips e la di lei cecità. Roso dai sensi di colpa, indosserà il camice bianco giusto per guarire la vedova, della quale nel frattempo si è perdutamente innamorato…
RECENSIONI
Gli esegeti di Sirk hanno da sempre esaminato le sue opere e cercato di enucleare forme e tematiche sulla base di un proverbiale postulato partorito dal regista di origine danese: è sottile il limite che separa arte e spazzatura, se quest’ultima contiene un granello di follia diviene grande arte. L’assunto, che potrebbe essere ricondotto alle poetiche di una buona metà degli artisti del XX secolo (da Burri in giù), sembra aver vincolato buona parte degli studi sul suo cinema, soprattutto da parte di quegli autoristes le cui analisi sono da sempre viziate dal presupposto del perfetto rispecchiamento tra autore ed opera, dunque tra dichiarazioni di poetica e prassi filmica. Ma limitandoci al visibile, osservando ed esaminando il crogiolo di passioni ora represse, ora liberate, il rapporto tra itinerario squisitamente melodrammatico (rispondente cioè al codice del genere nel quale il film si inserisce e dipanantesi in tappe ben definite) e sguardo, tra soggetti e spazio in senso stretto (décor, oggetti) ed in senso lato (contesto sociale e culturale: convenzioni, etichetta) è possibile ricostruire una sorta di modello/matrice alla base dell’intera opera dell’autore e ricercare nel dato filmico i modi in cui la spazzatura di base viene nobilitata. Nella Magnifica ossessione come ne Lo specchio della vita, Secondo amore o Come le foglie al vento, il punto di partenza è un concentrato di inverosimiglianze e soluzioni narrative di cattivo gusto, mutuate tanto dai romanzetti d’appendice ottocenteschi (referente “alto”), tanto dai fotoromanzi o racconti rosa da bancone del supermercato (referente “basso”): amori impossibili calati in un contesto borghese, privati dunque di ogni idealità tardoromantica (giusto per facilitare il processo di identificazione); conflitto perpetuo tra regola/convenzione e trasgressione della norma (quest’ultima quasi sempre punita); evento tragico suscettibile di una lettura in chiave evangelica (legata al binomio colpa/punizione-espiazione). In Sirk, il conflitto nucleare tra norma e trasgressione a livello di racconto e di costruzione dei caratteri trova un suo doppio a livello formale e più in generale linguistico: la drammatica lacerazione di una Jane Wyman, stretta tra desiderio di fuga e rispetto della regola, è la stessa che segna la declinazione del mélo operata da Sirk e che rende il suo modo di operare assolutamente non riconducibile in toto alla tipo/topologia del genere. Se il duplice pungolo coattivo lo obbliga al rispetto del racconto di genere, ecco calarsi nel sottotesto elementi in grado di destabilizzare il rigido formulario di partenza. Segnatamente, nella Magnifica ossessione – fin dal titolo opera che manifesta pienamente l’amore (mascherato in odio giusto per aggirare la censura) per l’irrazionale, il malsano, che viene magnificato in quanto unico processo in grado di rendere sublime il patetico, di caricare di veridicità ciò che a tutta prima è totalmente inverosimile – il ridicolo e pretestuoso plot funge da pretesto per ridisegnare un genere sulla base di una poetica rigorosa. I colori desaturati e il décor di un algido razionalismo, dunque la rappresentazione dello spazio e lo spazio stesso, significano soffocamento delle passioni, ibernazione dei sentimenti in nome del buon senso comune, gabbie anonime in cui prigionieri volontari od inconsapevoli restano intrappolati. Essendo quella di Sirk una vera e propria “figurazione” del disagio della civiltà borghese, che si concretizza nelle modalità sopraindicate, solo i personaggi variamente “alterati” riescono a cogliere il reale meccanismo di repressione che sottende l’esistente così come l’abbiamo ri-plasmato.
La presa di coscienza dello stato delle cose marca una fase importante nell’itinerario melodrammatico sirkiano: la cecità di Helen Philipps è, come quella di Tiresia, un modo finalmente autentico di “vedere” le cose, un’inevitabile regressio ad uterum per prelude all’acquisizione di uno sguardo finalmente o nuovamente purificato in grado di percepire gli altri, l’altro da sé, il mondo, una volta riacquistata “miracolosamente” la vista ed insieme carpirne il senso intimo. I personaggi di Sirk sono “magnificamente” ossessionati perché “vivi” o alla ricerca di una vita autentica, di una possibile via di fuga, anelanti ad una liberazione che, nel caso della Magnificent Obsession, sarà raggiunta. Si agitano all’interno di spazi angusti sognando di fondersi nell’infinità di una veduta marina (si pensi alla folgorante scena di Helen sulla spiaggia, che “sente ma non vede” il dottore). Sono segmenti di un discorso amoroso che aspirano alla totalità. Significativamente, la frase finale, l’elogio dell’ossessione, coincide con un preciso movimento dei personaggi in relazione allo spazio nel quale si trovano: si dirigono verso la finestra, un varco oltre il freddo spazio razionalista, un’apertura verso l’“oltre cortina” domestica che strugge il cuore.
Questa Magnifica ossessione è forse l’opera più compiuta e disperatamente, “volitivamente” ottimistica del regista danese.

Il produttore Ross Hunter, della Universal Pictures, rincorreva i film melodrammatici di successo degli anni trenta per riadattarli, dando modo al regista danese (naturalizzato tedesco) Douglas Sirk di dare inizio, proprio da qui, a quel pugno di fiammeggianti mélo per cui, previo Fassbinder, verrà in seguito riscoperto e osannato. In questo caso, però e nonostante gli estimatori, di soap opera datata e tediosa si tratta: riprende l’omonima (in originale, da noi Al di là delle Tenebre) pellicola del 1935 di John M. Stahl, regista cui tornerà per il più riuscito Lo Specchio della Vita, all’insegna del technicolor squillante di Russell Metty e di eccessi che, se saranno stilemi distintivi portati a compimento in opere successive, in cui la sovrabbondanza è anche meta-riflessiva, in questo caso hanno tutta l’apparenza di un ingenuo tentativo commerciale per sortire l’effetto drammatico e strappalacrime (inequivocabili, in questo senso, i violini patetici al momento giusto). L’aborto del neonato Sirk’s touch è anche dovuto ad un materiale sottostante oltremodo inverosimile e pacchiano, partorito da un romanzo del 1929 che lo stesso regista riteneva spazzatura ma che, infine, lo ha visto incurante degli effetti grossolani e ridicoli prodotti dalla poca accortezza dei dettagli. L’esempio più eclatante è fornito dall’ingrediente chiave del melodramma: per come è esposto il racconto, infatti, nulla giustifica la passione del milionario per la vedova più anziana; tutto porta, al contrario, a vederlo innamorarsi della più giovane e bella Barbara Rush. Se c’è di mezzo Edipo, non è mai contestualizzato, affrontato, suggerito e non funziona. La “magnifica ossessione” non è altro che la morale cristiana dell’‘Ama il prossimo tuo come te stesso’: edificante e deprimente, questo susseguirsi matarazziano e kitsch di tragedie gratuite è assai inferiore al più sobrio ed equilibrato film di Stahl ma lanciò la carriera di Jane Wyman (come quella di Irene Dunne nel 1935) e quella di Rock Hudson, scoperto (qualche film prima) da Sirk stesso.
