TRAMA
Dublino 1964. Tre giovani, accusate di comportamenti più o meno peccaminosi, sono rinchiuse in un “convento delle Maddalene”, un istituto gestito da suore in cui le peccatrici espiano le loro colpe lavorando come lavandaie…
RECENSIONI
Sister Crimes
C’è del marcio in Irlanda, e non solo lì, ma in tutti i luoghi nei quali la società specula sulla miseria e l’ignoranza dei più deboli: giovani donne, colpevoli di essere giovani e per di più donne, sono sfruttate da ministri satanici di un dio assente, che parlano di santità e collezionano denaro e luridi “servizietti”.
Mullan, con il coraggio di un leone affamato di verità, si scaglia contro un’istituzione sepolta nell’oblio da quella stessa chiesa che ciarla di amore universale nella speranza di non perdere le “nuove leve” di una fede decaffeinata. Il regista è infinitamente più cristiano delle anime pie che lo accusano di “infamia”, cristiano nel senso più barbaro e violento del termine: un fulmine che ferisce, purtroppo non a morte, lo squallore di un’ipocrisia marcia e mercificata.
Lavare i panni sporchi di sangue ed empietà alla luce di un sole caliginoso non è un lavoro gradevole, ma indispensabile e un po’ cannibale. Concentrando tutte le energie disponibili sul contenuto (la denuncia), si corre il rischio di porre in secondo piano la scatola (la messinscena) e mortificare l’espressività di immagini e parole (più delle prime che delle seconde).
Mullan filma con correttezza pudica e fin troppo millimetrica, rispettando personaggi e luoghi tipici del filone women in prison (la direttrice irredimibile, la carceriera che è al tempo stesso vittima e carnefice, l’aspirante kapò, la malata di mente, la “dura”, la ragazza del cuore d’oro) e chiudendo la sequenza di torture fisiche e psicologiche con una fuga che pare inverosimile, sebbene sia realmente avvenuta (secondo Pirandello, la vita può permettersi il lusso di non essere verosimile, perché è vera). La sensibilità del regista evita al film il baratro del patetico più retrivo, ma resta l’impressione che, su un tema come questo, sarebbe stato meglio utilizzare la formula del documentario, in modo da evitare quel retrogusto da “film dossier” televisivo che turba, sia pure in misura trascurabile, il tessuto dell’opera.
I momenti migliori sono quelli in cui ci si libera dalle secche del realismo in favore di squarci simbolici che non lasciano scampo: la pupilla dilatata e cerchiata di sangue, nella quale si riflette la cecità della suora (un’insostenibile voragine espressionistica); l’accostamento brutale e coerente di eucaristia e fellatio; la caccia tragica e dantesca che umilia il laido prete; il finale, l’incontro imprevisto e il gesto di feroce ribellione di Bernadette, che scioglie alla pioggia il trionfo corvino dei capelli, a marcare la propria rigenerazione. Più scontati, ma non meno espressivi, alcuni indizi disseminati come per caso nelle inquadrature (i rotoli di banconote, i capelli recisi della fuggitiva, il ritratto ghignante di JFK che ammicca oscenamente dalla cassaforte).
Perfetta Nora-Jane Noone, devastante come una giovane Bette Davis.

Vocazioni vere
Rito religioso cattolico incalzato dalle percussioni: s’alza la febbre, cadono le gocce di sudore, si consuma il peccato. La seconda prova registica di Mullan non si scrolla più di dosso il fervore fuori controllo, l’enfasi e la furia rabbiosa della prima, adrenalinica scena: le sue "Maddalene" non sono personaggi con l’anima ma vittime sacrificali a tesi. Il suo istituto è un carcere che chiama la fuga, la madre superiora è il sergente di ferro di una caserma, la vena anticlericale è terroristica e faziosa: demonizza aprioristicamente quando crede di perseguire la verità, insinua invece che mostrare (il dettaglio del sorriso venale della suora), cerca lo shock piuttosto che la denuncia (dettaglio dell’occhio insanguinato), indispone piuttosto che ferire. Contro l’oscurante inquisizione, il maschilismo istituzionalizzato, l’ipocrisia cattolica, certi spietati costumi e l’ancor peggiore, disumana indifferenza degli affetti familiari (per cui la rispettabilità conta più di tutto), Mullan sceglie l’urlo e l’ira dell’animale bastonato che carica e giustizia anch’egli sommariamente: mostra la camera delle torture per la mortificazione della carne confondendo l’impegno autorale de La Passione di Giovanna d'Arco con i gratuiti accenti di un morboso horror di genere (cui si deroga alle esagerazioni e la grossolanità dei profili) e il trasporto tragico/spettacolare (lontano dal documento) di Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo. Propaganda per propaganda, si rimpiange la caustica di Bunuel in questa requisitoria dove tutto sarà vero ma tutto è così gratuitamente preconcetto e giustapposto: la fellatio, la brutalità senza psicologia, la stessa proiezione di Le Campane di Santa Maria di Leo McCarey. Plateale come la prova d’orgoglio finale della Maddalena in ginocchio, l’opera (Leone d’Oro a Venezia) può mortificare l’intelligenza dello spettatore che vuole capire e condannare, non linciare.

Il Leone della discordia
Il meritato riconoscimento ottenuto a Venezia dal film di Peter Mullan e' stato l'ennesima occasione per strumentalizzare un film a livello politico coprendolo di significati che andavano al di fuori dell'opera stessa. L'oggetto del lungometraggio sono i conventi Magdalene, sorti in Irlanda (e sopravvissuti fino al 1996) per redimere giovani ragazze con un passato "disonorevole". Si trattava, ed e' documentato, di lavanderie, gestite dalle Sorelle della Misericordia per conto della Chiesa Cattolica, dove le sventurate recluse venivano sfruttate, umiliate e maltrattate. Spesso rinchiuse per evitare alle famiglie ulteriori bocche da sfamare o vergogne inaccettabili per la rigida morale del tempo (rapporti prematrimoniali, stupri, gravidanze al di fuori del matrimonio).
Il regista e sceneggiatore Peter Mullan (anche attore in uno dei ruoli piu' spregevoli del film, quello del padre che riporta indietro la figlia fuggita) prende una posizione ben precisa di totale rifiuto nei confronti dei conventi Magdalene e la porta avanti con coerenza e determinazione. La tesi da dimostrare rischia di schematizzare la narrazione in una facile suddivisione tra bene e male, ma il regista riesce quasi sempre a rendere problematici i personaggi, cadendo nel cliche' solo nella descrizione delle suore, tutte irrimediabilmente corrotte e malsane. Il film prende presto la piega della denuncia a sfondo carcerario, ma Peter Mullan riesce ad evitare i luoghi comuni del genere o, meglio, li affronta in modo inconsueto. Ci si aspetta il classico suicidio e invece vediamo un drammatico tentativo che viene sventato, tra l'altro con grande resa emotiva. Si attende la preparazione di un piano per organizzare la grande fuga e invece una delle ragazze, in una delle scene piu' struggenti del film, rinuncia all'occasione che le viene regalata. Ci si prepara ad assistere alla solita solidarieta' tra detenute e invece riscontriamo comportamenti molto umani ma tutt'altro che complici. Questi elementi, uniti ad una regia al servizio della storia, alla bravura delle interpreti e ad alcuni momenti di pura bellezza cinematografica (la sequenza iniziale, in cui una danza irlandese e' l'unico commento al passaparola che rovina la reputazione della giovane ragazza violentata, o il fotogramma finale, che carica di intensita' il gesto di ribellione della protagonista), rendono il film una denuncia forte e comunicativa. L'estensione dell'atto di accusa a tutti i conventi e ad ogni rappresentante della Chiesa Cattolica e' una licenza che si prendono giornalisti e spettatori, non particolarmente attenti ed inclini al qualunquismo. Lo stesso regista, infatti, si dichiara cattolico e critica un utilizzo strumentale della religione, purtroppo avvallato dalla Chiesa per anni.
