Commedia, Sala

LOCKDOWN ALL’ITALIANA

TRAMA

Roma, 8 marzo 2020. La ricca borghese Mariella scopre che il marito avvocato Giovanni la tradisce con Tamara, una donna più giovane e “periferica”, cioè borgatara. Tamara, cassiera al supermercato, è a sua volta sposata con Walter, placido tassista che scopre nello stesso giorno il tradimento della compagna. Ma proprio mentre Giovanni e Tamara stanno per uscire dalle rispettive case coniugali scoppia il lockdown, e le due coppie sposate sono costrette a rimanere insieme almeno fino a quando la quarantena non sarà terminata.

RECENSIONI

Complice la sublime bruttezza del poster e la sua capillare diffusione sui social, Lockdown all'italiana era parso inizialmente una sorta di falso storico, frutto dell'ingegno di qualcuno in vena di goliardia. Un semplice meme, in buona sostanza, da scrollare e da condividere. Invece Lockdown all'italiana esiste, eccome se esiste, ha lottato nelle sale italiane nel periodo della loro riapertura e si è forgiato del titolo di “primo film di finzione al mondo a raccontare la tragedia del Covid”. Il film di Enrico Vanzina – all'esordio dietro la macchina da presa, perché «Il ristorante Vanzina deve continuare a cucinare, quindi mi sono messo ai fornelli anch'io» – guarda ovviamente alla categoria degli instant movie, delle pellicole che fotografano e analizzano la realtà mentre la realtà è in pieno svolgimento. Una tipologia a cui l'Italia è affezionata, se pensiamo alla stagione del Neorealismo, alla produzione cinematografica riguardante il Boom economico dei '50 e '60 o ai polizieschi / poliziotteschi / noir realizzati durante gli anni di piombo. Si può e si deve raccontare tutto, è sempre bene ricordarlo, così come vale sempre la pena sottolineare che la questione principale non è tanto il cosa quanto il come. Il titolo dell'opus vanziniana in questo caso dice tanto: il lockdown è all'italiana proprio come lo è (stata) la commedia, con il suo tono leggero perfettamente coniugato alla capacità di analisi e riflessione sociologica. Vanzina e soci (nello specifico Paola Minaccioni, che ha contribuito alla sceneggiatura) non possono fare a meno di pensarci, al punto da puntellare qua e là la vicenda con ampie citazioni di Sordi, Gassman e dei medesimi Vanzina Bros., con la sequenza di Sapore di mare in cui Jerry Calà prende consapevolezza dei suoi limiti sulle note di Celeste nostalgia. Cinque secondi che producono un sussulto, perché quella scena vecchia di quasi 40 anni – con quell'atmosfera, quelle inquadrature e quella messinscena – sembra “pesare” a livello contenutistico più di tutto Lockdown all'italiana messo insieme.

Se l'isolamento coatto può avere dei risvolti buffi, con inevitabili tocchi di malinconia e amarezza, la ricetta – per riprendere la metafora culinaria di cui sopra – richiede dosi e tempistiche corrette, al fine di raggiungere il risultato sperato. E qua gli ingredienti sembrano lanciati alla rinfusa: a Lockdown all'italiana mancano i tempi comici, il senso del ritmo, una qualsiasi idea di regia. La storia delle due coppie (i borghesi Giovanni e Mariella da un lato, i proletari Walter e Tamara dall'altro) che scoppiano ma non possono separarsi a causa della quarantena del 9 marzo è raccontata in scenette quasi prive di trama, a compartimenti stagni tra un soggiorno e un pianerottolo, uno studio e una cucina. Mancando del tutto la coesione delle parti viene spesso meno anche il senso logico: le gag di Ezio Greggio suonano impacciate e abbandonate a loro stesse, le improvvise virate drammatiche – il monologo del medesimo Greggio, il dialogo tra Ricky Memphis e Riccardo Rossi – arrivano all'improvviso producendo un effetto straniante e grottesco opposto a quello voluto, il sorprendente messaggio di sfiducia nei confronti dell'uomo (che non cambia, impara poco e dimentica subito) sprofonda nell'evidente incapacità di osservare la contemporaneità in modo verosimile, anche solo a spanne. Lockdown all'italiana continua a reiterare l'immaginario italico tipico degli anni '80, ormai invecchiato di secoli persino se applicato ai cinepanettoni (figuriamoci quindi ad un film con velleità sociologiche). Una visione che purtroppo rimanda più alle macchiette da avanspettacolo del Bagaglino che all'emozione, al sentimento e all'immedesimazione proprie della commedia all'italiana. Gli intenti possono essere nobilissimi, compreso quello di voler riportare la gente al cinema facendola sorridere dopo un lungo periodo di esasperazione e angoscia. Ma come si fa ad intercettare i favori del pubblico e il suo indispensabile passaparola se il meglio che si ha da proporre è il solito giochino di corna ed equivoci condito da battute quali «Mi raccomando, fai attenzione, il virus resta sulle superfici. E tu sei un superficiale»?