Biografico, Sala, Storico

LINCOLN

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2012
Durata150'
Sceneggiatura
Tratto daTeam of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin (in parte)
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Gennaio 1865. Una carneficina alla quale porre fine, una disuguaglianza da cancellare: la corsa contro il tempo del presidente Abraham Lincoln, tra compromessi, compravendite e incubi.

RECENSIONI

Tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre
Louis-Ferdinand Céline

Servito dalla splendida sceneggiatura di Tony Kushner (Angels in America, Munich) – rimaneggiamento di Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin – e da un cast artistico e tecnico senza eguali, Steven Spielberg trova la forma più adatta per rendere intelligibile il “suo” personaggio storico. Il Lincoln dell’immenso Daniel Day Lewis è un paradosso ambulante, tra parola incorporata e stilizzazione di un corpo scolpito dalla luce della Storia.
A differenza del mero resoconto, in Lincoln rivive una pagina storica ricomplessificata, che si dispiega senza spiegarsi. Didattica senza essere didascalica, cristallina senza essere evidente, l’opera è segnata da un duplice passaggio: dal mito all’uomo, dall’uomo al verbo che gli sopravvive. Spielberg e Kushner forgiano il ritratto definitivo di un uomo ossessionato, che persegue un’idea fissa cerebrale (vedi l’intellettualizzazione del concetto di uguaglianza, con il riferimento al teorema di Euclide: “Doppi di cose uguali sono uguali tra loro”) e si prefigge un duplice obiettivo: cancellare una macchia illogica, più che anticostituzionale (la schiavitù), per lasciare una traccia indelebile e (ri)salire, così, sul piedistallo della Storia. La sua enormità fisica, il suo incedere lento, claudicante, sgraziato, paiono cristallizzare proprio la tragedia e il malessere di un uomo comune su cui incombe il Mito: “Potrei essere rinchiuso in un guscio e credermi il re di uno spazio infinito se non facessi brutti sogni”. Sono il “fuori” (la luce del sole=l’agire pubblico) e il “fuori-dentro” della futura fiamma (della candela=dell’uomo che entrerà nella Storia) a gravare sul corpo di Lincoln. Un uomo che porta sulle spalle il peso dei cadaveri che ha sulla coscienza (la fine procrastinata della guerra di secessione), che vive la tragedia di un’intimità da sacrificare (“E’ troppo difficile, troppo difficile”), che deve fare i conti con il dolore di una donna che vorrebbe morire ma che, alla fine, per amore si presta al gioco e accetta il compromesso – nella sublime sequenza nella camera del defunto Willie, a poche ore dal ricevimento, per mezzo di una soluzione di montaggio impertinente e straordinariamente efficace, Mary Todd (una straziata e straziante Sally Field) si tramuta rapidamente da mater dolorosa (“La testa mi duole così tanto. Ho pregato per la morte la notte in cui Willie è morto. Ma il mio desiderio non è stato esaudito. Come sopportare i lunghi pomeriggi fino alla notte fonda?”) in donna battagliera e ammiccante.

La Storia è conoscenza attraverso le tracce. Il cinema storico di solito valorizza e “espande” queste tracce, focalizzandosi esclusivamente su eventi cruciali e memorabili. In Lincoln, le tracce sono dentro (l’approvazione dell’emendamento) e fuori del racconto (la guerra). Spielberg punta più che mai sul fuori campo e sulla suggestione: la guerra, resa metonimicamente (corpi martoriati, navi in fiamme), il suono delle campane che annunciano la vittoria, Lincoln infine oltre la tenda, oggetto scenico ricorrente perché metaforica cortina tra il dentro e il fuori. Vengono invece saturati e valorizzati gli intervalli, a volta lunghi e snervanti. Lincoln è in sostanza la storia che presiede alla Storia, il ritratto di un uomo che rinuncia alla vita (e al corpo) affinché la sua parola sia ancor più seducente e memorabile. Quando l’agire umano diviene storico e l’azione si tramuta in traccia (l’approvazione dell’emendamento), Lincoln si eclissa e diviene fiamma, ritorna monumento, immobile come nel prologo ma, questa volta, “parlante” come nei manuali di storia contemporanea.
La retorica e il compromesso “demonunmentalizzante” da un lato, l’ombra del Mito dall’altro. L’ombra, come già nell’ultimo Indiana Jones, è proiezione, riverberazione e ingigantimento figurale, una sorta di “mitografia” che dialoga con la parola, spesso sporca, della politica. Lincoln è insieme ombra e parola, retorica, persuasione, imbonimento, proferazione. racconto. Gli interminabili dibattiti sono interrotti o saggiamente annacquati da aneddoti egualmente fluviali dello stesso presidente. L’arte retorica e la strategia di seduzione dispiegate da Lincoln vivono di metafore e tatticismi, massime filosofiche e motti di spirito metadiscorsivi (“Come disse il predicatore, potrei scrivere brevi sermoni, ma una volta che comincio sono troppo pigro per smettere”). Questa è la politica: fiori di saggezza capaci di crescere dal letame del compromesso. Il tutto in nome dell’“unica libertà alla quale possiamo aspirare”: quella di fronte alla (logica della) legge. Il potere si esercita di nascosto, non si ostenta. Il potere logora se non si esercita (“Nessuno sa esattamente cosa sia il potere. Qualcuno ritiene che non esista”). Le parole sono il potere, ma solo se riescono a sedurre per modificare il corso degli eventi.

Nel filone storico del cinema di Spielberg, la parola detta non è mai stata così performativa. Solo i nomi “listati” da Oskar Schindler lo furono. Qui, è la parola a fare evento, e gli eventi spettacolari (e/o spettacolarizzabili) sono da questa scalzati. Nel prologo, la parola si insinua sul campo di battaglia dopo pochi minuti. Sorprendente, come se in Salvate il soldato Ryan Spielberg avesse staccato sull’ufficio del generale nel bel mezzo dello sbarco in Normandia… Nei primi minuti del film, incontriamo il presidente sotto il tendone di un accampamento, una postura che ricorda quella della famosa statua a Washington. Il discorso ufficiale e celeberrimo di Gettysburg (“That we here highly resolve that these dead shall not have died in vain. That this nation, under God, shall have a new birth of freedom and the gouvernment of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth”) è qui recitato da un soldato di colore e funge da imprinting : la teoria deve necessariamente tradursi in pratica, sembra pensare Lincoln. Dalla postura quasi monumentale si passa bruscamente al piano medio deformante dell’incubo: la Storia come vascello che avanza a tutta velocità, verso una riva che l’uomo di potere, nella sua disperante solitudine, appena intravvede (“E' notte. La nave è mossa da una spinta terribile, ad una velocità terrificante. Anche se è impercettibile nel buio. Ho intuito che stiamo andando verso una riva. Nessun altro sembra essere a bordo della nave e sono consapevole della mia solitudine”). Il sogno, che a detta di Mary Todd dovrebbe simboleggiare il “vascello” del tredicesimo emendamento, è anche un presagio di morte: la nave corre veloce, c’è poco tempo, bisogna lasciare una traccia. Il cinema storico spielberghiano è divenuto, da campo di battaglia popolato di corpi smembrati, umiliati e offesi, luogo del conflitto tra corpo e discorso. Qui, il discorso “fa parlare” un corpo disproporzionato che tace fino alla paralisi della morte. Il corpo mummificato scompare, incenerito dal “fuoco” del Verbo.

Spielberg prosegue il suo personalissimo discorso sulla Storia portando avanti, contestualmente e con eccezionale coerenza, l’itinerario formale inaugurato l’anno scorso col sottovalutato War Horse. Per Spielberg, la Storia è l’orribile. Un orribile nel quale l’arte cinematografica “based on real events” può tuttavia incastonare azioni miracolose e folli slanci umanisti : dal sogno del volo del giovane Ballard (L’Impero del sole) al capitale umano del capitalista-salvatore Schindler, dalla missione poco plausibile, ma realizzata, di salvare un soldato facendo rischiare la vita ad altri dieci (molti dei quali, in effetti, periranno) all’impasse di Munich. Solo il passato, non recente e già storicizzato, può infatti ospitare il sogno, l’affabulazione o il commovente “miracolo” di un amore interetnico, quello, ad esempio, che vive il radicale Thaddeus Stevens (un magnifico Tommy Lee Jones).
Con Lincoln, Spielberg conferma e perfeziona il riattraversamento definitivo del cinema classico, in particolare fordiano. Epura e (si) nega gli slanci flemighiani che coloravano di rosso porpora il cielo di War Horse. Qui, tutto è geometria: il cavallo sta(va) a Dioniso come il presidente sta a Euclide e ad Aristotele. I movimenti di macchina, mai a mano, sono numerosissimi ma resi impercettibili in ragione della loro stringente (e struggente) necessità. Quando la trasparenza è pura poesia. Spielberg non solo attualizza il classico, ma ipotizza un “pre-classico”. Lincoln è un film del presente e del passato non solo prossimo (quello, appunto, del cinema classico hollywoodiano), ma remoto (il diciannovesimo secolo). Come il neoclassicismo nelle arti figurative, è più classico dei classici, perché capace, col senno (e la tecnica) del presente, di riconfigurare il linguaggio, ad esempio, fordiano, lavando manzonianamente i “panni” dell'epoca d'oro nel fiume figurativo del secolo di Lincoln. Il presunto neoclassicismo spielberghiano è in realtà iperclassicismo non antimoderno, ma antipostmoderno. L’unica risposta sensata al gioco, spesso divertente, altre volte ammorbante, di un Quentin Tarantino. Spielberg è uno dei pochi registi viventi a credere ancora che il cinema sia una cosa seria. Un po' come Lincoln, che fu uno degli ultimi presidenti degli Stati Uniti a credere ancora nella Storia e nelle storie. È un cinema che perfeziona il passato (del cinema, degli uomini) per lasciare, proprio come il presidente, una traccia. Spielberg agisce per gli spettatori di domani, e questa missione trova il suo correlativo finzionale nel rapporto, tenero e appena abbozzato, tra Lincoln e il figlio più piccolo, Tad. Tad è, come il soldato di colore dell'incipit, uno dei motori dell'azione “a tutta velocità”; egli vive gli stessi incubi del padre perché troppo concentrato sui suoi “glass camera plates”, ritratti, prezzati, di schiavi bambini. Ossessionato, anche lui, da un'immagine, da una rappresentazione, dalla Storia. Dopo l’approvazione dell’emendamento, sul suono delle campane a festa, Lincoln spalanca la finestra e supera la soglia simbolica delle tende. Tad lo raggiunge e il padre rivolge una carezza al figlio. Il voto segna l’ingresso nella Storia dei diritti, la “vera” Storia. Lincoln è quindi pronto per il sacrificio finale. L'attentato avviene, coerentemente, fuori campo, e lo spettatore ne apprende la notizia assieme a Ted, durante una rappresentazione teatrale, non a caso, dell'Egmont di Beethoven. Un padre è divenuto il Padre. La nave, che avanzava ad una velocità terribile, è finalmente giunta in porto. Il passato è ancòra nel nostro presente e àncora (di salvezza) del nostro futuro. Esattamente come il cinema.

Il rischio del ritratto elegiaco, avendo a che fare con una figura che, nel tempo, è diventata archetipo di rettitudine e purezza, è scongiurato da certi spunti forniti dal libro di Doris Kearns Goodwin, che analizza la scaltrezza politica di un uomo che era, prima di tutto, un avvocato: stante il principio in gioco, Lincoln non esita anche a comprare i voti nel perseguirlo o a calmierare la veemenza idealistica dell’onorevole Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones o a rimandare un incontro con i delegati del Sud che metterebbe fine alla guerra. Qualche fanfara, soprattutto nel finale, fa capolino ma l’opera, concentrata sul travagliato percorso dell’emendamento per l’abolizione della schiavitù, è sostenuta dall’eccellente sceneggiatura di Tony Kushner (il drammaturgo di Angels in America, già con Spielberg per Munich), con dialoghi prodigiosi ed un ottimo disegno, a tutto tondo, della figura del protagonista, con il suo incedere posato, che prende tempo (anche con la moglie ed il figlio che lo pressano di domande: cambia discorso) e dotato d’eloquio da parabola (ama raccontare storielle divertenti e/ma emblematiche). Spielberg aggiunge un altro tassello ad un filone della sua filmografia, quello che si occupa de Il Colore Viola e di Amistad, facendo propri gli strumenti dell’Otto Preminger di Tempesta su Washington: regia invisibile al servizio del testo e di straordinari attori, in un impianto corale che sacrifica alcuni ma dona luce a tutti (in tutti i sensi, vedi la fotografia ad illuminazione naturale di Kaminski).

LA PROCEDURA DEL BENE
La parola e l’azione in Lincoln e Zero Dark Thirty