Drammatico

L’HOMME QUI RIT

Titolo OriginaleL'Homme Qui Rit
NazioneFrancia/ Repubblica Ceca
Anno Produzione2012
Durata95'
Tratto dadall’omonimo romanzo di Victor Hugo
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Ursus, un uomo di spettacolo, nella sua roulotte accoglie due orfani persi nella tempesta: Gwynplaine, un ragazzo con il volto segnato da una cicatrice a causa della quale sembra che rida sempre, e Dea, una ragazza cieca. Pochi anni dopo, danno uno spettacolo in cui Gwynplaine è la stella. Ovunque si spostino, la gente vuole vedere ‘L’uomo che ride’, e dovunque c’è l’uomo che ride, arriva la folla. Questo successo apre le porte della fama e della ricchezza al giovane e lo allontana dalle sole due persone che lo hanno sempre amato per quello che è: Dea e Ursus.

RECENSIONI


Nell’ennesima trasposizione del classico di Victor Hugo, il francese Jeanne-Pierre Améris (sui nostri schermi l’anno scorso con Emotivi anonimi) punta allo spettacolo per grandi e piccini dove tutto è bigger than life: le immense scenografie, i costumi sfarzosi e ricercati, la fotografia dai toni scuri ma in grado di valorizzare i dettagli sfavillanti e una regia che tenta di enfatizzare la già forte portata dei conflitti. C’è il divario enorme tra ricchezza e povertà, l’immobilità della classe politica, più preoccupata di conservare i propri privilegi che di adoperarsi per il popolo, l’incapacità di andare oltre l’esteriorità, l’imposizione di idoli come arma di distrazione di massa per mistificare la realtà. Non può poi mancare la grande storia d’amore, ovviamente problematica.


Il protagonista Gwynplaine, una sorta di creatura burtoniana con il sorriso perennemente stampato sul volto a causa di una cicatrice enorme, è infatti combattuto tra l’amore puro dell’amica di infanzia, che essendo cieca non può vedere la sua mostruosità, e quello della fascinosa duchessa che si specchia nel freak: lui è sfregiato nel volto, lei nell’anima. Gli elementi per appassionare non mancano, eppure la regia non regala il minimo sussulto. Tutto è troppo costantemente carico per distinguere i contrasti, le scene madri si succedono a ripetizione, la musica rombante non molla una sequenza, la recitazione è tutto un declamare ed eccede toni già sovraeccitati. La sceneggiatura, poi, procede linearmente senza dare alcun brio alla scansione degli eventi.


Solo lo spaesamento di Gwynplaine, che si ritrova da saltimbanco a nobile, concede qualche guizzo (le gigantografie della famiglia di origine che scorrono sotto i suoi occhi senza che lui abbia tempo e modo di soffermarvisi), insieme al suo discorso di fronte ai pari del regno a tutela dei diritti dei più deboli. Il resto, però, è calma piatta. Anche la forte potenzialità espressiva della maschera tragica del protagonista, costretto a mostrarsi felice pur soffrendo nell’intimo, non viene valorizzata a dovere, a causa di una caratterizzazione incerta che resta in superficie. Tutta l’attenzione è concentrata sui raccordi del racconto in modo da renderlo il più possibile chiaro e fruibile. Ma così facendo lo spettacolo, pur sontuoso, si sviluppa inerte e anonimo, divenendo un fumettone in costume tra i tanti, incapace di attualizzare gli spunti universali del romanzo di Hugo. Gratuita la citazione-omaggio de L’Atalante, di Jean Vigo, nel finale.