TRAMA
Alexandre vive a Lione con moglie e figli. Un giorno viene a sapere che il prete dal quale era stato molestato da piccolo, quando faceva parte del gruppo degli scout, continua ad officiare sempre a contatto con i bambini. Decide allora di agire, supportato strada facendo da altre due vittime di Padre Preynat, François ed Emmanuel. I tre uomini uniscono le forze per abbattere il muro di silenzio che circonda il loro dramma. Nessuno di loro sarà però indenne da ripercussioni e conseguenze.
RECENSIONI
Arrivato al diciottesimo lungometraggio, François Ozon aveva pensato a un film sulla fragilità maschile che, dopo tante donne protagoniste, mettesse in primo piano uomini in crisi, feriti, in lacrime. Aveva già il titolo: L’homme qui pleure. Imbattutosi nel sito La parole libérée, che raccoglie le testimonianze di uomini abusati nella loro giovanissima età da un prete, questa suggestione di pura finzione trova innesto nella cronaca: il caso Preynat, il prete della diocesi di Lione accusato di aver molestato sessualmente circa 70 suoi ex parrocchiani tra il 1986 e il 1991, all’epoca giovani scout affidati alle cure del sacerdote, e il silenzio connivente dell’istituzione ecclesiastica nella figura del potente cardinale Philippe Barbarin. Il primo progetto è di farne un documentario ma questa formula non convince né il regista né le persone interpellate che avevano già rilasciato diverse interviste per reportage giornalistici: la finzione, ancora una volta, seppur saldamente ancorata ai dati incontrovertibili del processo in corso nonché alle testimonianze dirette delle vittime, risulta la dimensione migliore per scavare nell’evidenza dei fatti, per non arrestarsi alla loro superficie, per quanto chiara e inappellabile. Durante la lavorazione Ozon utilizza un ulteriore elemento di finzione - il titolo provvisorio Alexandre appioppato a una fantomatica storia sul ritrovarsi di vecchi amici lionesi - come strumento per difendersi dalla realtà circostante, ovvero dall’ostilità che avrebbe ostacolato le riprese se fosse venuto subito alla luce l’argomento del film. Pur in un lavoro lontanissimo dai giochi di specchi e dalle ambiguità di lettura delle opere precedenti, l’oscillare - vitale - tra reale e immaginazione ne informa la genesi.
Ozon si cimenta dunque per la prima volta col film d’inchiesta, con le forme civili e codificate del cinema cosiddetto engagé, con un racconto in cui ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti non è affatto casuale. Narrazione distesa, meticolosa, che procede per gemmazione: dalla prima storia trae origine una seconda, dalla seconda una terza per concludere coralmente e tornare alla prima. La fragilità maschile del primissimo progetto pervade l’intreccio: il trauma dell’abuso genera ferite e debolezze, più o meno sopite, che i tre uomini protagonisti curano, ignorano, lasciano incancrenire a seconda dell’ambiente sociale di provenienza e delle risorse affettive sulle quali possono contare. Il grande rimosso è la minaccia alla mascolinità (Didier che si rifiuta di collaborare per non ricevere il marchio di “vittima di pedofilia”), la maggiore paura è disattendere le attese sociali (non per niente Preynat, al primo incontro con Alexandre, sembra quasi sollevato nel sapere che la sua vittima si è comunque sposata e ha una famiglia numerosa). Ancora una volta Ozon si trova a investigare nei territori della memoria e soprattutto della famiglia, tra figure paterne assenti, deboli o distorte che nelle attenzioni eccessive del prete e nell’omertà del cardinale trovano un paradossale, doloroso e insostenibile riflesso. Aver subito violenza lì dove si pensava di trovare riparo è un tormento difficile da estirpare. I flashback dell’infanzia sono piccoli segmenti, parziali e allusivi, che punteggiano inquieti la narrazione.
Alexandre è un banchiere, rampollo della Lione benestante, padre di cinque figli, cattolico praticante. L’incontro con un conoscente dei tempi degli scout riattiva in lui ricordi accantonati che solo apparentemente non avevano lasciato traccia in una vita all’insegna del successo personale e professionale. È soprattutto la sua fede nell’istituzione religiosa ad essere scossa, il suo radicato senso del sacro a subire una minaccia che non può più ignorare. Alexandre agisce con pacatezza e lucidità, è sostenuto da moglie e figli, usa la diplomazia per ottenere delle scuse che scoprirà non bastargli, infrange un silenzio che non è solo quello della Chiesa ma anche dei tabù custoditi gelosamente in seno agli agi di una vita alto-borghese (la reazione contrariata dei genitori alla caparbietà della sua lotta). Il testimone passa quindi a François: costruttore, ateo intransigente, dapprima restio a scoperchiare un passato che aveva sigillato, poi animato da una veemenza iconoclasta, da uno sdegno straripante, da un impeto che non tutti gradiscono, tra cui un fratello che si sente messo in ombra da un dramma che non lo riguarda. Tutti devono sapere, gli inquirenti non bastano, entrano in gioco i media. Infine Emmanuel, la vittima più indifesa e vulnerabile, fiaccato dal trauma non solo nello spirito ma anche nella carne (il pene curvo, le crisi epilettiche). Di estrazione sociale umile, una madre addolorata dai sensi di colpa, conduce una vita ai margini malgrado il quoziente intellettivo superiore alla media: insicurezza cronica, sensibilità esacerbata, relazioni malate. Nell’associazione creata dalle vittime e nella causa comune Emmanuel troverà il modo per ricucire la sua identità a pezzi e costruire una comunità di affetti, un simulacro positivo di famiglia. Il processo di elaborazione del trauma di ognuno è differente, condizionato dal milieu d’origine, dalla risposta dei familiari, dal proprio bagaglio emotivo. Ozon ritrae questo ampio spettro di reazioni cercando la giusta distanza, svicolando il melodramma, misurando la compassione, annullando la retorica dell’indignazione.
Con Grazie a Dio Ozon gira un film di parola e sulla parola, soffocata, omessa, cercata, urlata, infine liberata, come annuncia orgogliosamente il sito delle ex vittime di Preynat. Senza tralasciare le trappole semantiche (il termine “pedosessualità” caldeggiato ipocritamente al posto di “pedofilia”), gli slittamenti di senso (la differenza, cruciale, tra perdono e giustizia), le falle del linguaggio (quel “grazie a Dio” ripreso nel titolo, lapsus rivelatore che in un’incauta dichiarazione pubblica denuda pensieri e intenti del cardinale Barbarin). Il film è costellato di comunicati, lettere, e-mail, verbali, appelli. La prima mezz’ora si svolge quasi interamente in forma epistolare, ritmata da una pressante ma composta voice-over, seguendo la corrispondenza tra Alexandre e la curia lionese, poi il racconto procede su dinamiche più consuete, assecondando il lungo lavoro d’indagine, privato e pubblico, che ha portato alla denuncia degli abusi subiti e dell’omertà criminale delle gerarchie ecclesiastiche. Ozon, rinunciando al suo gusto per l’onirico e per i labirinti formali e narrativi, punta ai fatti e alle parole, opta per una messinscena asciutta e lineare, improntata a un realismo schietto fino a sfiorare l’illustrativo, si affida al gioco d’attori per dare voce al dolore delle vittime, accompagnandole nel liberatorio ma difficile processo di presa di coscienza. Si concede però una stilettata finale quando nella sequenza conclusiva ad essere messa in dubbio è la parola del grande assente, di colui che non dovrebbe indurci in tentazione ma liberarci dal Male. Si può ancora credere nella parola di Dio? Alexandre abbozza un timidissimo sorriso e non risponde.
Orso d’argento-Gran premio della Giuria al Festival di Berlino 2019