TRAMA
Mario Martone e il suo viaggio nel cinema di Massimo Troisi.
RECENSIONI
Da qualche film in qua, la principale priorità del cinema di Mario Martone è quella di collocare Napoli e il suo bagaglio culturale sulla mappa globale, senza svendersi alla globalizzazione. Progetto letteralmente tropicalista: non sorprende, dunque, che Martone dedichi il suo ultimo film a un geniale uomo di spettacolo che, nella Napoli dei secondi anni Settanta, svolse una funzione aggregatrice simile a quella che svolsero Caetano Veloso e Glauber Rocha in Brasile. Come gli ufficiosi leader del movimento informale “Tropicalia”, che lanciò sul mercato globale un’immagine del Brasile aggressivamente difforme da qualsiasi esotismo, Massimo Troisi riuscì di colpo a coagulare l’articolata galassia che, tra cantine e laboratori, costruiva le condizioni affinché Napoli potesse presentarsi culturalmente senza ricorrere al cliché. In queste cantine e laboratori si muovevano, fra gli altri, i giovanissimi Toni Servillo e Mario Martone. Cineasta, quest’ultimo, di cui enricoghezzi (giustamente avvicinato, in Laggiù qualcuno mi ama, a Troisi per come, negli stessi anni, si lanciava in un’ipotesi di scrittura cinematografica al di là del cinema come linguaggio in senso stretto) rilevò l’eccezionale somiglianza fisiognomica con lo stesso Troisi.
Il gioco di specchi, naturalmente, non finisce qui: basti accennare al sodalizio artistico con Anna Pavignano, che riecheggerà in quello tra Martone e Ippolita di Maio. Ma è una carta che Laggiù qualcuno mi ama sceglie di non giocare, relegandola ai margini. La carta del gioco di specchi multiplo e incrociato, infatti, sarebbe troppo scopertamente truffautiana. Certo, il film comincia enunciando l’ipotesi, ardita ma di inequivocabile riscontro, che Troisi fu per l’Italia ciò che Antoine Doinel, insieme al ciclo di film che François Truffaut gli dedicò, fu per la nouvelle vague francese: l’epitome più compiuta della modernità cinematografica, l’immagine di un soggetto aperto, franto, indeciso, incompiuto, espressa attraverso il racconto dell’amore che sfuma nel racconto della vita e viceversa (e in questo sfumare identifica il suo potenziale politico), nonché attraverso un rinnovamento radicale della strumentazione recitativa. Quest’ipotesi, però, è solo uno dei due fili che si intrecciano in Laggiù qualcuno mi ama: il secondo è, appunto, un’immagine di Napoli e della napoletanità che le renda effettivamente giustizia.
In mezzo, il film accenna en passant, per lasciarla cadere subito dopo con sovrana noncuranza, un’altra ipotesi non meno radicale: l’immagine della mascolinità offerta da Troisi negli anni del ciclone femminista, se catapultata nel mondo di oggi, sarebbe perfettamente in sintonia con le coordinate ideologiche dell’attualità, e forse rispetto ad esse sarebbe anche più avanzata. Ipotesi, tuttavia, lasciata allo stato di semplice abbozzo. O meglio, anziché svilupparla, il film sceglie, per lei, uno “sviluppo altro”. Ma è il film tutto, nel suo complesso, a scartare la carta dello sviluppo, e a scegliere invece quella dello “sviluppo altro”.
Spieghiamoci meglio. Una volta introdotte le due ipotesi principali (l’intreccio truffautiano tra amore, vita e arte; l’immagine di Napoli e della napoletanità), il film non fa quasi nulla per articolarle: con andamento svagato e ondivago, e con la cronologia come tenue filo d’Arianna, il film si sfilaccia svergognatamente facendo entrare un po’ tutto. Rivolgendosi a un target (grazie al Cielo) confuso e indeterminato (non si capisce mai se il film cerchi un pubblico che conosca già Troisi o non lo conosca ancora), Laggiù qualcuno mi ama non esita ad affidarsi a transizioni appiccicate con lo scotch, a gente che ascolta nastri con la voce di Troisi registrata o guarda i suoi film e sorride compiaciuta, e ad altre goffaggini strutturali esibite con la sfacciataggine con cui l’attore di San Giorgio Cremano esibì la sua, di goffaggine.
Ma proprio quando il film raté Truffautiano e il terzomondista “cinema imperfetto” sembrano coincidere, arriva la quadratura del cerchio: con lo straordinario finale di Pensavo fosse amore e invece era un calesse (che Martone ripropone in toto, dopo averla riecheggiata quasi trent’anni fa ne L’amore molesto) tutto diventa chiaro e, di colpo, i due fili coincidono, l’amore-vita-arte truffautiana si salda all’immagine della città. Fine del Troisi regista. Ma né la vita né la carriera di Troisi finiscono. E nemmeno il film di Martone, se è per questo. Laggiù qualcuno mi ama è un film che avrebbe avuto senso fare (e guardare) anche solo per la geniale ultima parte, in cui la sua partecipazione a Il postino viene identificata come il culmine della vita e dell’opera di Troisi: con un intelligentissimo lavoro di scavo e riassemblaggi dei materiali (spezzoni del film, footage informale delle riprese etc.), Martone dipinge un Troisi che riesce a spingersi dove nemmeno Truffaut si spinse, ovvero nell’avvenuta coincidenza tra personale e impersonale. Il massimo dell’autorialità, Troisi l’ha raggiunta cancellandosi, in un film non suo. Padre di un figlio non suo come in Ricomincio da Tre. Laddove Truffaut abbandona Antoine Doinel una volta compiuta la trasformazione di questi in opera (Doinel, come gli uomini di Fahrenheit 451, letteralmente diventa libro ne L’amore fugge), Troisi muore un giorno dopo la chiusura definitiva del suo personaggio durante la lavorazione de Il postino. Lui che già aveva messo in scena la propria morte fittizia, una dozzina di anni prima, in Morto Troisi, viva Troisi.
Ecco dunque che dietro Laggiù qualcuno mi ama si cela quello che Jacques Rivette (tra le maggiori influenze umane e professionali ricevute da Truffaut, eminenza grigia della nouvelle vague nonché esplicito nume tutelare di Martone in Teatro di guerra) chiamerebbe un film “segreto”. Il centro del film sarebbe insomma non tanto il suo contenuto quanto il suo partito preso “sformalista”: la forma della modernità è quella in cui la forma aperta e la forma chiusa si sovrappongono fino a confondersi. La forma non è più la mediazione tra l’aperto e il chiuso, ma è ciò che, rossellinianamente, trova la coincidenza immediata tra il compiuto e l’incompiuto. Come riconosce persino Paolo Sorrentino, la drammaturgia di Troisi è anomala: accumula tensione, lentezza, disagio, e poi arriva la gag a scaricarla tutto d’un colpo. Il cinema di Troisi, a cominciare dalla sua stessa faccia e personalità schermica, è il trionfo dell’incompiuto – che però immediatamente e di colpo si trasforma in compiuto. È un incompiuto compiuto “in sé”. Tutto è già sinteticamente (altro termine caro a Rivette) compresso e compreso nella gestualità di Troisi, nessun bisogno di sovrastrutture linguistiche vi si aggiungano. Per questo Martone si sente in dovere di mostrarsi alla moviola col fedele collaboratore Jacopo Quadri (uno dei montatori più virtuosistici al mondo), mentre concorda con lui davanti a una scena di Scusate il ritardo: “no, questa non tagliamola, lasciamola tutta intera anche se è lenta”.
Ma lo stesso Martone, evocando la panoramica “mancata” su Napoli dall’alto che Troisi si rifiutò di fare in Pensavo fosse amore, si sente comunque in dovere di farla lui, questa panoramica. Davanti a ciò che è già compiuto nell’incompiutezza, si può solo essere fedeli esibendo l’incompiutezza, e la palese ridondanza, dei tentativi di compierla ulteriormente. Tutto il successo planetario di Benigni è già compreso nel Postino senza bisogno di dargli uno sviluppo o un seguito. Allo stesso modo, Martone si smarca dal successo planetario di un Sorrentino con un film sospeso tra compiutezza e incompiutezza: se Sorrentino ha trovato una quadratura del cerchio matematicamente perfetta tra i due idealtipi definitivi dell’operatore culturale contemporaneo, l’Andrea Renzi e il Toni Servillo di Teatro di guerra (poi da lui mutuati, con minime differenze, ne L’uomo in più), Martone vuole trovare un’eccentrica terza via, perché solo in questa eccentrica terza via tra compiutezza e incompiutezza si può essere fedeli alla specificità napoletana senza svenderla agli imperativi della globalizzazione.
Martone chiude il suo film col Troisi de Il postino, mentre confronta la Luna con la pallina del calcio balilla messa in bocca dalla Cucinotta, prima di tracciare un cerchio su un foglio di carta. Anche Martone aggiunge cerchio a cerchio: al compiuto nell’incompiuto che fu il cinema di Troisi, costruisce una compiutezza supplementare, col risultato di sformarla e per ciò stesso trovarle una nuova forma coincidente con l’informe. Ecco dunque che Laggiù qualcuno mi ama si palesa come perfetto contraltare del Marx può aspettare di Bellocchio: là la salvezza dell’incompiuto, qui la maledizione del compiuto, negato ed affermato ripetendolo. Là la confessione bellocchiana, un mea culpa che risucchia mezzo secolo di Storia nell’agnizione di Io e non-Io (d’altra parte, come si diceva in Sangue del mio sangue, “Bobbio è il mondo”). Qui, una compartecipazione “eucaristica” (anche l’ostia, d’altra parte, è un cerchio) dell’incompiutezza compiuta, che si apre immediatamente a ipotesi comunitaria: anche senza mostrare Napoli (Troisi ebbe a difendersi persino da questo), la coscienza di se stessa che Martone vuole offrire alla napoletanità è quella di una modernità che non ha bisogno di compiersi, perché anche da incompiuta rimane più moderna di tutte le altre. È questo “sviluppo altro”, incarnato dalla forma stessa del film, che il film identifica come la chiave della napoletanità, sia quella incarnata da Troisi che quella da esporre, senza compromessi, sul mercato globale.