
TRAMA
William Burke e William Hare, considerati precursori di ogni assassino seriale che si rispetti, procurano cadaveri per la ricerca scientifica.
RECENSIONI
Cineasta seminale, decisamente più di quanto sia concesso dalle canoniche Storia del Cinema, John Landis ha filiato una percentuale imbarazzante di cinema contemporaneo, statunitense e non. Il suo magistero è stato radicalizzato, portato al parossismo, trivializzato, frainteso. Dai Coen a Lynch, da Raimi a Tarantino, così come nel cinema demenziale di ogni qualità e annata post - anni 80. Tracce di Landis ovunque. Nel leggiadro gioco combinatorio dei generi, nel lavoro sulle convenzioni, negli scarti dagli automatismi di produzione del senso del modello classico: slittamenti inattesi, insoddisfazione delle aspettative, l'eloquio sfalsato di un linguaggio cinematografico costantemente, ma sottilmente fuori ritmo. Così Burke & Hare – Ladri di cadaveri, rentrée dopo 12 anni 12 di televisione coatta. L'ironica umiltà fuori tempo di una didascalia d'apertura che frantuma ogni pretesa veridicità del gioco/cinema, la volontà sorniona di un punto di vista differente sulla Storia, anche del Cinema: Burke & Hare sono personaggi realmente esistiti, scritti nella leggenda, raccontati da film di ogni stagione. Landis contamina il nero pece di una storia di assassini seriali in toni da commedia. Ma non si tratta di un semplice esercizio cinefilo: la riflessione sui meccanismi comici e drammatici non sa di irrisione, ma (al solito) di placido denudamento, perché Landis non mira a raggiungere una catarsi grottesca o caricaturale, ma sceglie di portare a galla i codici mentre li nega/ribalta/rinvia/anticipa, rendendo consapevole lo spettatore del canone, nel momento stesso in cui gli si sottrae. L'umorismo è legato indissolubilmente alla riflessione metalinguistica: si ride per lo stupore, per la gioia dello spaesamento, dello scarto rispetto alle attese. Umorismo e metacinema inverano una visione del mondo: sono caratteristiche che delineano una distanza, uno sguardo che non nega mai di essere di secondo grado. Uno sguardo saturo, che conosce le dinamiche della storia e del cinema, che rassegnato si permette il calambour, la disperazione ammansita e cristallizzata nel sorriso, l'amarezza come costante, senza pathos: con poche stilizzate pennellate individua lo spirito di un'epoca (lo spettacolo delle esecuzioni pubbliche, le contraddizioni dello sviluppo scientifico e artistico, il capitalismo amorale: questioni che precipitano sulla contemporaneità), in una narrazione a rotta di collo mai dimentica di porre questioni etiche, con raffinata nonchalance, in un film di cristallino intrattenimento intessuto da un impagabile rigore geometrico (tra l'impiccagione iniziale e quella finale lo spettatore matura sentimenti e pensieri che si infrangono nella circolarità).
Nella stasi e nella trasparenza di un linguaggio classico le cui regole spesso implodono vacue nella demenzialità, salvo poi ristabilirsi, Landis dimostra dunque la sua idea sul mondo: non si fugge dal cinema classico, non c'è Altro rispetto alle logiche del capitale (vi ricordate Una poltrona per due?), il bene e il male non si pongono limpidamente (i protagonisti non sono diversi dal mondo che li circonda, se la commedia è il genere dell'integrazione Burke e Hare si adeguano semplicemente a una modalità più estrema della logica del guadagno, e l'amicizia virile del buddy movie collassa a contatto con il mero istinto di sopravvivenza), la giustizia è un bieco compromesso imbellettato, i sentimenti valgono come merce, o sono la più facile delle armi di manipolazione. Landis compone questa miniatura Ealing dedicata all'Ottocento con una tavolazza impressionante di toni comici, che racchiude tempi e modi di produzione del riso in un'antologia che va dal cinema muto alla freddura triviale, giocando sempre controtempo con lo spettatore, tenendolo desto nell'insoddisfazione delle attese, instaurando un sapere enciclopedico che si sposa perfettamente a quel senso di distanza di cui sopra.
Tragedia di uomini ridicoli che della tragedia non conoscono l'afflato, Burke & Hare - Ladri di cadaveri conferma l'acume del cinema di Landis, dissimulato nella finta ingenuità del classicismo, frainteso a causa dell'idiozia dei personaggi che inscena (sintomi sociali convinti di potersi determinare): esercizio formale di rara finezza, di una genialità umile, perché priva di vezzi, sciolta nella leggerezza della narrazione. Il cinema di Landis non si compiace, non si dice mai intelligente. Lo è, con una semplicità disarmante, a scanso di quegli equivoci che, da sempre, fanno di questo regista un incompreso.

Due graditi ritorni: John Landis al lungometraggio comedy-horror, genere in cui firmò un caposaldo con Un Lupo Mannaro Americano a Londra (non a caso, richiama sul set Jenny Agutter e John Woodvine), e l’inglese Ealing Productions che rispolvera i modi di un passato glorioso, quando apponeva il sigillo su irresistibili commedie macabre. Tutto è vecchio stile in questa pellicola in apparenza innocua ma, come le migliori opere di Landis, in realtà graffiante nelle stoccate che lancia alla storia del genere umano: qualche gag alla Laurel & Hardy, che Landis ama, caricature già viste senz’altro, tipi umani squallidi in buffoneria che ricordano sia i Tom Jones sia il primo demenziale anni settanta alla Brooks e Feldman, tanto humour nero con cui mettere in scena l’indifferenza con cui l’uomo compie le azioni più deprecabili. Burke & Hare sono personaggi realmente esistiti, protagonisti di non poche pellicole dell’orrore con fonte comune il “Ladro di cadaveri” di R.L. Stevenson: questa rivisitazione è deliziosamente non-nuova ma senz’altro magistrale nella riproduzione scenografica, nei dettagli e nelle location, di una Edimburgo sporca da un lato e famelica di progressi amorali della scienza dall’altro. Divertenti le strizzatine d’occhio a personaggi/luoghi comuni famosi (i protagonisti, praticamente, inventano i termini fotografia, protezione mafiosa, onoranze funebri), intriganti i sottotemi: scopo dell’intero plot è di rendere relativisticamente innocui i ladri di cadaveri a confronto di chi li circonda, soprattutto dotti medici e sapienti, con macchiette memorabili, ma non è trascurabile nemmeno la vena romantica, con il Burke di Simon Pegg che in nome dell’amore monda i propri peccati, mentre il Macbeth al femminile (ottima idea) che il suo personaggio finanzia commenta un’epoca sanguinaria, di lotta per la sopravvivenza dal basso (comunismo in fasce: Hare uccide con falce e martello) e gretto arrivismo dall’alto (politici, scienziati e vertici corrotti). Immancabili i camei landisiani.
