TRAMA
RECENSIONI
Con Lacci (film d'apertura di Venezia 77, fuori concorso) il cosiddetto cinema “medio” di Luchetti trova, forse, un'insperata e cristallina ragion d'essere. Difficile anche solo immaginarla una forma differente o più efficace per adattare il bel romanzo di Starnone senza sfociare negli estremismi autoriali con cui tanto cinema europeo (Vinterberg, Haneke, Lanthimos...) ha affrontato temi analoghi: la dissoluzione della famiglia borghese e di tutta la retorica che si porta appresso, oggi in Italia non può che parlare la lingua di quel cinema borghese che negli anni '90 e '00 invadeva i nostri schermi e che ora, benché non sia mai davvero scomparso, in tanti ricordano con un misto di imbarazzo e malcelata nostalgia. Luchetti questa forma la conosce bene e in questo caso ha dalla sua un soggetto che finalmente ne giustifica e ne valorizza il recupero. Qui meglio che altrove: così non accadeva, ad esempio, in Anni felici, altro film su(l ricordo di) una coppia, dichiaratamente autobiografico, eppure soffocato da una forma (borghese) incapace di restituire le pulsioni avanguardistiche e trasgressive alla base di una crisi matrimoniale.
Gli anni felici della coppia al centro di Lacci, invece, sono tutti nel fuori campo, in un passato di cui sappiamo poco, ma che tutto sommato, nella sua asfissiante regolarità, non facciamo troppa fatica a immaginare. Appartengono questi ad un ricordo privato che non ci è dato vedere, se non in una fantasmatica dimensione extraconiugale: le fotografie dell'amante Lidia che Aldo conserva in un impenetrabile cubo-memoria, diventano immagini che si materializzano nel ricordo e quindi evidenza dell'impossibilità di condividere, da quel momento in poi, una sincera felicità. Alla felicità di uno, corrisponde lo sgomento dell'altra, fino a quando, naturalmente, si spegne per entrambi; il tempo passa impietoso e i lacci del titolo, da legami familiari costruiti con tanta fatica, incoscienza e, chissà, forse una volta perfino un po' d'amore, si fanno corde tesissime e indistruttibili, prigioni che si tramandano alle future generazioni e dalle quali è impossibile scappare davvero.
La storia di Aldo e Vanda è allora la storia di un matrimonio, di uno borghese come tanti, e proprio per questo facilmente leggibile nella sua dimensione universale. Ancora, è una storia che parla la stessa lingua dei protagonisti e del pubblico a cui si rivolge e che si fida così tanto della parola scritta che sceglie di tradurre il testo di partenza senza tradirlo minimamente. A costo di rischiare una sterile schematicità narrativa, la sceneggiatura di Luchetti-Starnone-Piccolo mantiene pressoché intatta la struttura temporale articolata del romanzo e ne ripropone monologhi, dialoghi, riflessioni in forma epistolare e la pluralità dei punti di vista. Limita però quello di Aldo, e non è un caso: tra le altre cose, Lacci è anche un film che mette al centro della relazione una figura maschile inetta e fallace, debole e incapace fino alla fine di governare il mondo che la circonda. Nella visione di Luchetti (in modo molto più evidente rispetto a quella di Starnone), Aldo è uno speaker radiofonico senza una voce, un'esistenza riflessa in quelle degli altri, uno che «non si è mai arrabbiato» e che quindi, per dirla con Vanda, «non è mai stato quello che voleva, ma sempre quello che capitava».
Certo, al di là delle vicinanze con il testo di partenza, l'adesione a quel linguaggio medio borghese di cui sopra comporta anche il fatto che Lacci non sia esente da alcune esasperazioni emotive che oggi appaiono quantomeno stucchevoli (Vanda che getta la radio dalla finestra, alcuni duelli verbali urlati e filmati con ben poco rigore). Ma benché molto visibile, lo spettro dei sentimenti che il film vuole mettere in scena trova nell'articolazione narrativa tutte quelle sfumature che immagini e parole non sempre riescono a restituire adeguatamente. E invece di finire ingabbiati in uno schema puntiglioso e asfissiante, ci si ritrova quasi a sorpresa ad empatizzare con le diverse tessere di un mosaico ben disposto.
Vale la pena infine evidenziare anche qui quanto già detto altrove: in Lacci c'è forse una delle soluzioni di casting più surreali degli ultimi anni. La scelta di far interpretare Vanda adulta e anziana rispettivamente ad Alba Rohrwacher e Laura Morante e, allo stesso modo, di far interpretare Aldo adulto e anziano rispettivamente a Luigi Lo Cascio e a Silvio Orlando metterebbe alla prova la sospensione dell'incredulità di chiunque, perfino dei più ingenui sognatori o dei più scarsi fisionomisti. Ovviamente, proprio per questo, è interessante. Azzardiamo: e se invece di una pacchiana necessità dettata da evidenti logiche di mercato (raddoppiare i nomi rilevanti in cartellone significa anche poter ambire, fin da subito, ad un maggior interesse di pubblico e critica nei confronti del film), un casting così straniante e irriverente fosse una scelta artistica più consapevole e curiosa di quanto non sembri? E se fosse, per esempio, la testimonianza evidente e fisica di quanto il tempo, le cose della vita e il movimento inerziale dei sentimenti cambino gli individui all'interno di una relazione, fino a modificarne i volti e i corpi, fino a renderli altro da sé, tanto da non riconoscer-e/si più nonostante l'apparente, sofferta e precaria immobilità?
Con tutta la malizia del caso, la risposta probabilmente la sappiamo. Eppure.