Avventura, Recensione

LA TIGRE DI ESCHNAPUR – IL SEPOLCRO INDIANO

Titolo OriginaleDer Tiger von Eschnapur - Das indische Grabmal
NazioneGermania
Anno Produzione1959
Genere
Durata101’ + 102’

TRAMA

Un ingegnere tedesco, alla corte indiana del maragià Chandra, s’innamora della danzatrice che il principe vorrebbe sposare, attirando le sue ire. Intanto, il fratello del maragià medita un colpo di stato.

RECENSIONI

Fritz Lang rientra in Germania e ricomincia come nulla fosse cambiato: rifà un duetto firmato da Joe May del 1921 e scritto da lui con la preziosa Thea von Harbou. Torna, come ai tempi del muto, a realizzare un’opera a “puntate” e torna ai fasti kolossali (notevole l’impegno produttivo per la Germania), alle avventure nella fantasia, agli intrighi di potere, al cinema di stupefazione. Sebbene sia uscito come due film distinti, si tratta in realtà di un'unica opera divisa a metà, dove La Tigre di Eschnapur è più suadente perché immerso nell’esotismo e nelle meraviglie di quel paese (gli interni, invece, sono tutti da studio, con fasto), mentre Il Sepolcro Indiano si occlude maggiormente negli intrighi di corte e d’amore. D’altro canto, nella prima parte la figuratività, l’esotismo e la “magia” contano molto più del racconto, talmente povero che Lang indugia spesso in altro. Nella seconda parte, invece, l’intrigo, il percorso di crescita del maragià dall’amore all’odio, dall’europeizzazione al ragionamento di pancia (fino a perdere la via e ritrovarla: intenso il momento in cui fissa i due amanti sfiniti e si arrende), conta più di tutto il resto. Ci sono ingenuità (l’epifania di Debra Paget sull’origine europea del padre), maestranze povere (la testa decapitata e il serpente di cartapesta), recitazioni terribili (Debra Paget e Claus Holm) ma anche i colori meravigliosi (Eastmancolor), il fasto dei costumi e delle genti, delle tigri e degli elefanti, della giungla che, senza soluzione di continuità, diventa un deserto, di sotterranei e grotte, scene horror pure (i lebbrosi come zombi, i coccodrilli) e, sopra tutto, un erotismo alle stelle (sfuggito alla censura?). Debra Paget si esibice in danze che dire provocanti è poco: nel primo film con catenelle e spaccate lussuriose, nel secondo con un costume a “foglie di fico” da urlo e tutto sotto l’enorme statua di una dea con seno abnorme e capezzoli in vista. Quel kitsch sublime che rende grandiosa l’esperienza e anticipa Ken Russell.