TRAMA
I numeri primi sono divisibili soltanto per uno e per se stessi. Sono numeri solitari e incomprensibili agli altri. Alice e Mattia sono entrambi “primi”, entrambi perseguitati da tragedie che li hanno segnati nell’infanzia.
RECENSIONI
Non è un mistero, e la stessa casa editrice non ha esitato a sottolinearlo più di una volta, che il successo del romanzo di Paolo Giordano sia dovuto in parte anche a un'efficace e vincente strategia di marketing che ha accoppiato a un titolo misterioso e accattivante (quello pensato dall'autore era il meno invitante 'Dentro e fuori dall'acqua') un'immagine di copertina altrettanto misteriosa e accattivante: un volto efebico, dalla sessualità indistinta (in realtà è l'autoritratto di una giovane fotografa olandese), che fa capolino dalle foglie verdi scrutando il potenziale lettore con uno sguardo enigmatico, tra la diffidenza e la richiesta d'aiuto. Il manifesto del film che Saverio Costanzo ha tratto dal romanzo in questione, con la collaborazione dello stesso scrittore in sede di sceneggiatura, per una volta è sintomatico delle scelte operate dal regista e della direzione che ha voluto dare a un materiale narrativo così ingombrante perché già di successo. Non cavalcando la facilità del rimando alla celebre copertina, sparisce infatti ogni figura umana e il titolo campeggia con tutto il carico della parola 'solitudine' in mezzo a fronde più scure, decisamente meno dolci, vagamente opprimenti, tra le quali s'intravede solo una debole porzione di cielo azzurro. E difatti Costanzo scarnifica la struttura narrativa, tagliando diversi personaggi o limitandone la portata, si disinteressa di un probabilmente atteso naturalismo psicologico, alza il tiro e punta tutto sull'elemento puramente visivo, trasfondendo in un'atmosfera densamente orrorifica il dolore e il disagio del crescere sotto il peso di traumi non elaborati, modellando in pratica un racconto di (de)formazione in un esercizio di stile allucinato, plumbeo e spiazzante.
Opera implosa e soffocante, a tratti respingente, La solitudine dei numeri primi è un film irrisolto ma che vive del fascino cupo dei suoi frammenti, ammirevole nel suo forse consapevole autolesionismo. Perché Costanzo avrebbe potuto facilmente approfittare di un'occasione così ghiotta per ottenere finalmente il successo e il favore del grande pubblico ricorrendo a una trasposizione più letterale del best-seller di Giordano e più in linea con un certo 'fare cinema' prettamente italiano (e con i suoi endemici difetti). E invece nessuna voce fuori campo ad accattivarsi le simpatie del pubblico, nessuna linearità cronologica o psicologica che accompagni empaticamente lo spettatore nello svolgimento delle vicende dei personaggi, nessun sociologismo da supermercato che aiuti a incasellare il film in uno schedario di vicende già note, nessun didascalismo ad ammorbare dialoghi ridotti invece all'osso. Costanzo, che probabilmente non deve aver amato molto il romanzo di Giordano, come è apparso da certe goffe attestazioni pubbliche di stima e dalle mani messe avanti ('Non aspettatevi Il gattopardo' ha dichiarato in conferenza stampa a Venezia), ha deciso quindi di impegnarsi nel progetto perseguendo un progetto estetico del tutto personale, all'insegna di un espressionismo violento e barocco che fa perno sul disturbante e l'inquietudine come esperienza audio-visiva, attingendo alla memoria comune e condivisa dai protagonisti e dal regista e da chi come loro, nato a metà dei '70, è stato bambino durante gli anni '80 e adolescente nei primi anni '90 (il sottoscritto, ad esempio). Ecco allora la crudeltà bruciante di certe sequenze dei cartoni animati giapponesi in cui i tratti arrotondati della grafica venivano squarciati da atti di violenza inaudita (il bimbo sparato alle spalle in un puntata di 'Lady Oscar'), l'angoscia non troppo nascosta delle feste della prima adolescenza in cui il divertimento spesso veniva fagocitato dal divorante senso dell'inadeguatezza sociale e sessuale in un profluvio di note martellanti e oscurità illuminate in modo aggressivo e intermittente (la lunga, forse troppo lunga, sequenza del secondo party di compleanno, intrisa di elettrica cupezza, puntellata da una colonna sonora sempre più frastornante, tagliuzzata dai laser verdi, punto cruciale in cui i diversi rivoli temporali della storia convergono a rivelare e finalmente visualizzare gli eventi traumatici all'origine del dissesto psico-fisico dei due protagonisti) e soprattutto l'attentato ai sensi dei capolavori di Dario Argento, riecheggianti anche nella bella colonna sonora firmata da Mike Patton e che comprende anche un inedito dei Goblin oltre che il tema morriconiano de L'uccello dalle piume di cristallo (puro calco argentiano è il bellissimo incipit intinto nel blu e nel verde acido in cui la macchina da presa guidata da un'angosciosa nenia infantile si aggira nell'inquietante set di una recita scolastica: una grottesca messinscena per bambini del mito di Teseo e il Labirinto, interrotta da un urlo e conclusa dalla vergognosa richiesta di scuse da parte dell'attor bambino di fronte a una platea di adulti senza volto). Tutto questo inserito in una struttura temporale in cui flashback e flashforward non sono più tali, aggrovigliandosi essi in un unico grumo emotivo, quasi senza passato e senza futuro, un intrecciarsi indistinto di realtà e incubo (le escursioni oniriche di Alice), una stagnazione ipnotica nel malessere di un eterno presente nutrito di sensi di colpa, coercizioni genitoriali, mostruosità edipiche (splendidamente sinistra la madre impersonata da una grande Isabella Rossellini). Il dolore è talmente intenso da essere sordo, privo di parole, afasico ma visibile, esteriorizzato e tatuato nei corpi che esprimono la disarmonia col mondo automutilandosi, smagrendosi in modo estremo, sformandosi.
Lugubre ed esasperata, la messinscena di Costanzo lavora sull'immagine fino allo sfinimento, in un modo che in Italia trova analogie solo col Garrone del bellissimo e terribile Primo amore o l'ultimo Bellocchio (il virtuosistico montaggio è proprio della bellocchiana Francesca Calvelli) ma con minor rigore purtroppo. Consapevole dell'assenza di una struttura narrativa forte o articolata, il regista punta sulla suggestione visiva, punta molto, punta troppo, sbanda nel compiacimento, nella saturazione dei toni. L'esercizio di stile pecca di eccessi di stile, di rimandi cinefili più o meno a fuoco e a rischio presunzione (ma vivaddio in certi casi), di pesantezze espositive. Troppa pioggia a frustare l'angoscia di Mattia per la perdita della sorellina, troppa nebbia metaforica ad ovattare la caduta e l'isolamento di Alice, troppo ghignante il più che pleonastico clown infernale di Filippo Timi. Il film si cristallizza nelle sue rischiose scelte linguistiche, si chiude a riccio nell'autismo sentimentale dei suoi personaggi, s'incaglia nelle stimmate e nelle lacerazioni dei loro corpi martoriati (eppure di notevole forza espressiva rimane la visualizzazione improvvisa e parallela della metamorfosi fisica di Mattia e Alice che introduce l'ultimo segmento del film: la figura allo specchio di lui, gonfia e cosparsa di tagli autoinflitti, la schiena scheletrica di lei che affiora nella vasca da bagno). Ma anche nei momenti più deboli come nel lungo e faticoso finale 'antonioniano' nel quale il film sembra ripiegarsi in una debole speranza dal sapore posticcio affiorano momenti preziosi come la bella sequenza del ritorno in Italia di Mattia dopo il soggiorno all'estero, con il ragazzo che bussa alla porta di Alice e lo vestizione frettolosa di lei, tutta giocata sulle note di 'Bette Davis Eyes' di Kim Carnes, preludio a un raro momento di gioia investito di una luce che però ancora una volta sembra ferire e sfigurare i volti sorridenti dei personaggi più che riscaldarli.
Insomma, con tutti i suoi difetti e passi falsi, La solitudine dei numeri primi mi sembra un film da difendere, comunque meritorio, quasi prezioso se circoscritto al solo panorama cinematografico italiano. E nella riflessione poco serena su di esso, da parte di pubblico e critica, credo abbia pesato parecchio un pregiudizio, quello per l'appunto di essere tratto dal celebre romanzo di Paolo Giordano, libro elogiato ma anche denigrato al di là dei suoi meriti (a parer mio opera media/mediocre, di dimessa scrittura ma di qualche interesse narrativo), condizione che l'ha circondato di attese ansiose e asti preventivi. E invece pur nell'ambito di un'opera su (ingombrante) commissione Costanzo è riuscito a mantenere una indipendenza d'azione e di sguardo che, pur se scricchiolante sul piano dei risultati, ha indicato ancora una volta che un altro cinema in Italia, un cinema che si liberi delle pastoie del racconto a tutti i costi puntando a una sorta di 'astrattismo narrativo', è comunque possibile.

La solitudine dei numeri primi, il romanzo, è il sintomo più evidente di quella che è la tendenza dell’editoria italiana di grande consumo: creare un prodotto che piaccia, a forma di lettore medio-cre (il che è tragicamente normale), usando la letteratura come un paravento e giammai come un obiettivo da raggiungere (il che è tremendamente sconfortante). Il libro di Giordano è l’epitome di questa aberrazione che molto ha a che fare con la degenerazione di una (sub)cultura, la nostra, che confonde e livella tutto, che guarda ai distinguo come a un cancro e che, cancro vero essa stessa, pone la spazzatura commerciale, anche se travestita da dramma intimo, sociale o storico, accanto ai tentativi nobili di fare della buona narrativa, non importa se riusciti o meno. Che la Mondadori gongoli per le centinaia di migliaia di copie vendute di questo libro, a dirne bene dilettantesco, non nascondendo, anzi sottolineando come un ruolo decisivo lo abbiano svolto il titolo azzeccato e la fotografia di copertina, è naturale; meno lo è che anche il massimo premio letterario nazionale, schiavo da anni di un meccanismo di rotazione tra le case editrici (questa è l’Italia) finisca, per la prima volta, per premiare uno scrittore di tale strabordante pochezza, imprimendo il marchio di qualità a una operazione di marketing puro.
Esaurite le hard-cover, sfruttati all’osso i tascabili, non restava, dunque, che sbarcare al cinema.
Non è proditorio sostenere che Costanzo credesse poco in questa riduzione e in questo film, coinvolto quasi suo malgrado nel progetto prima come sceneggiatore e infine come regista: a confermarlo, oltre ai messaggi subliminali insiti nelle sue dichiarazioni, basterebbe un'occhiata ai suoi precedenti e all'approccio stilistico che contraddistingue quest'ultima opera. Si può affermare che di fronte all'artificiosa materia di partenza, il regista abbia deciso di isolarne alcuni elementi, di enfatizzarli e, partendo da essi, creare un film che in qualche modo usasse il libro come uno sfondo, distanziandosene in misura sufficiente a farglielo e farcelo dimenticare.
L'incipit è in questo senso programmatico: la recita scolastica in acido, con sfumature orrorifiche e la musica ossessiva dei Goblin, è puro Dario Argento e costituisce una sorta di preambolo alla girandola stilistica che punteggerà l'intera opera. Ma l'ultimo Argento, quello che l'intreccio lo butta a mare, è forse un riferimento anche più forte, stante la tentazione più volta assecondata dal regista di astrarsi dalle logiche aneddotiche per rifugiarsi nella pura visione (la sequenza della festa). Costanzo, confermando il suo eclettismo, punta dunque sull'horror psicologico (e in questo senso va letta la scelta di porre i due eventi traumatici che aprono il libro solo verso la fine, come chiavi di lettura a posteriori degli eventi), non ha nessuna remora nel dichiarare i modelli (c'è dentro anche Carrie di DePalma) attraverso immagini sempre molto curate, ma non necessariamente calibrate e sintonizzate sui drammi delle figure centrali. Non basta l'efficace ambientazione (il romanzo, senza mai nominarla, era ambientato a Torino - la città di Profondo rosso e di tanto altro Argento' -; allo stesso modo il film è stato girato nel capoluogo piemontese senza che ci sia un solo elemento riconoscibile a sanzionarlo per lo spettatore), l'intelligente uso delle musiche rivisitative di Mike Patton - ex frontman dei Faith No More e animatore di mille altri progetti musicali, sempre più tentato dalle note italiche - che si adeguano e accordano di volta in volta al periodo preso in considerazione o l'innegabile capacità dell'autore di imporre il suo sguardo: quello che manca, paradossalmente è proprio l'oggetto di questo sguardo, i due protagonisti semplicemente non esistono se non come ectoplasmatiche presenze che ricordano allo spettatore di essere anime ferite e gli chiedono di creder loro sulla parola.
La solitudine si afferma insomma come un film che dal romanzo tenta la fuga senza mai distaccarsene a sufficienza, che anzi risulta crocifisso alla terrificante sequela di dialoghi della pagina scritta che ammorbano la visione riconsegnandola, volente o nolente, alla debolissima meccanica narrativa. Se la strutturazione temporale risulta piuttosto raffinata (il film non segue il normale flusso temporale del libro, ma individua tre precisi blocchi temporali, e poi vi si muove per ellissi con grande disinvoltura, senza prediligerne nessuno, consegnando il lungo finale al frammento cronologico più recente), il suo peso specifico è tale da determinare ancora una volta l'insistenza sulla narrazione, costituendone una griglia imprescindibile. Il viaggio nella trasformazione dei corpi dei protagonisti si incrocia, poi, con la necessità di metterli in scena e farli parlare: in questo modo si denuncia la mancanza di nerbo del Costanzo direttore di attori, la desolante modestia dello script (a cui collabora lo stesso scrittore), l'artificialità delle cicatrici spirituali e fisiche che segnano i due pietrificati personaggi, (la Rohrwacher riesce a essere brava nonostante tutto, Marinelli è di stolida fissità) che si palesa a fronte della necessità di renderle drammaturgicamente sensate. L'involontario carattere grottesco di queste creature - fintissime nel prefabbricato dramma di Giordano - viene recuperato da Costanzo nel tentativo di renderlo congruente con una scelta più marcatamente espressionista e sopra le righe, ma non basta l'applicazione di un preciso canone a salvare una baracca messa su a spizzichi e bocconi: il tentativo di riscattare la sostanza attraverso lo stile è talmente esibito da suscitare tenerezza e determina una serie di facilonerie (il clown Timi, fascinosa cianfrusaglia tirata fuori dallo scatolone dell'horror), a vere e proprie perle scult che vanno dal bimbo travestito che piange sotto la pioggia, al nebbione della montagna in odor di Cocteau fino all'annichilente dilatazione finale in cui il film ristagna in una contemplazione di un ipotetico dolore, supponente quanto innocua. Le stesse fughe oniriche (il sogno di Alice, con un accenno a Bachelorette, il video di Gondry) sono scomposte e fuori luogo ad alimentare l'impressione di totale scollamento tra quanto viene messo in scena e l'esigenza, mai abbandonata, di far seguire allo spettatore le sventure posticce dei protagonisti.
Costanzo, in definitiva, non evade mai dal compromesso, partorendo un ibrido che non riesce ad essere nemmeno mostruosamente interessante e che nella parte conclusiva vira pesantemente su certo Antonioni, a sancire l'ennesimo oggetto a parte di un film che nell'ansia di muoversi in molteplici direzioni possibili, salvo quella della resa pedissequa della vicenda romanzesca, finisce per stazionare indeciso a un crocicchio senza affermare mai una precisa identità.

Il film di Saverio Costanzo si caratterizza prima di tutto per l’originalità con cui rivisita l’omonimo best seller premio Strega di Paolo Giordano, incentrato sul legame fra due diverse solitudini che si rispecchiano nelle reciproche ferite. Una personalizzazione che lo porta a stravolgere la linearità del testo di origine attraverso una frammentazione molto cinematografica che crea il necessario spaesamento per lo spettatore, sia il neofita, sia chi, conoscendo già il soggetto, rischia di non trovare adeguato mordente nel passaggio su pellicola. Costanzo, insieme a Giordano che ha co-sceneggiato, identifica subito i tre momenti chiave del romanzo: il trauma dell’infanzia, il dolore dell’adolescenza e il grigiore del presente e li incastra abilmente con un incedere quasi horror. La scelta, molto efficace, beneficia anche di una colonna sonora elettronica spiazzante (Mike Patton) e di dettagli che in più occasioni sostituiscono le parole. I dialoghi sono infatti ridotti al minimo e sono principalmente i corpi, i luoghi, la luce, le atmosfere sonore, a parlare e a trasmettere gravità e grevità degli stati d’animo. Il film si sofferma soprattutto sulla prima parte del romanzo confinando il dopo dei personaggi, che sulla carta ha ampio spazio (la vita di Mattia all’estero, il rapporto di Alice con il marito), a un raccordo finale quasi metafisico, impalpabile, molto più rischioso e, infatti, meno comunicativo. Con una conclusione più speranzosa, però, rispetto al libro, in cui l’impossibilità dei numeri primi di unirsi non lasciava dubbi. Il film, invece, si ferma un po’ prima, quando il legame di sofferenza simbiotica che lega i due protagonisti sembra aprirsi a una dolcezza non per forza effimera. Molto fisica la prova dei due interpreti principali, ingrassati (il debuttante su grande schermo Luca Marinelli) o dimagriti (Alba Rohrwacher, a rischio maniera) per esigenze di copione. Convincente, poi, il contributo di Isabella Rossellini, che con il passare degli anni sembra guadagnare in espressività e di grande impatto il cameo di Filippo Timi, un clown spaventoso che ben si adatta alle pieghe sinistre del racconto. Interessante, quindi, il risultato, fedele al testo d’origine non tanto nel come (spesso le dinamiche degli eventi sono differenti) quanto - cosa molto più importante quando si decide di tradurre un romanzo per immagini, per di più se entrato nell’immaginario di un pubblico molto ampio - nel perché.

Saverio Costanzo è dotato di Cinema: con esso stravolge, riavvolge, fa implodere e coglie l’anima primigenia, da racconto gotico, del romanzo di Paolo Giordano (premio strega 2008). Senza rispettare un continuum temporale, segue i due protagonisti dall’infanzia all’età adulta, ponendo in parallelo differenti fasce d’età che accrescono il senso l’una con l’altra. Da subito dichiara il “genere” con la musica argentiana (un inedito dei Goblin e il tema di Morricone da L’Uccello dalle Piume di Cristallo) di Mike Patton, intervallata da una nenia da film horror che contrappunta il mistero delle vite di questi due giovani solitari/lontani. Nel suo serioso Sitcom semina inquietudini: lo sguardo spaventato della madre di Isabella Rossellini, che ha i brividi quando pensa al figlio Mattia; atmosfere da fiaba nera; ambienti selezionati per sensazioni surreali (la discoteca con le sue luci stroboscopiche, il camerino in cui la riflessione degli specchi crea spazi infiniti); primi piani in movimento che restringono la visuale dell’ambiente, facendolo entrare in campo con misteriosa alterità; soggettive malate (verso il finale) con la nebbia e le frasche che invadono gli interni come emanazioni dell’inconscio, del pensiero che immobilizza. Strategia del Ragno: una struttura ellittica, a puzzle, che accresce il potenziale del testo; un cinema che evoca prima di enunciare. Il più grande difetto di Costanzo resta la vezzosità autoriale: ama lasciare al buio le gallerie, sperando nella moltiplicazione dei significati ma trovando, più spesso, tanti segni lasciati appesi con geometrie gratuite.
