TRAMA
Juliette e Roméo sono giovani, felici e innamorati. Quando scoprono la grave malattia che ha colpito il figlio Adam di diciotto mesi, i due ragazzi vengono però brutalmente strappati alla loro felicità e costretti ad affrontare le drammatiche difficoltà che l’esistenza può riservare.
RECENSIONI
Valérie Donzelli e il suo compagno Jérémie Elkaïm sono gli autentici protagonisti del dramma presentato nel film, i genitori del piccolo Adam, il bambino che affronta il calvario terapeutico narrato nella pellicola. Il film, scritto da entrambi, coinvolgendo anche altri protagonisti effettivi della vicenda (parenti, amici) racconta, con tutte le mediazioni artistiche del caso, l'odissea reale della coppia. La premessa è indispensabile e non può essere scissa dalla considerazione critica del film, perché il dato autobiografico è parte integrante del tessuto di questo lavoro, lo nutre e ne sostiene il significato.
Il tono conferito al film è annunciato dai nomi dei protagonisti: Roméo e Juliette sono gli evidenti e annunciati personaggi di una futura tragedia, vittime di un amour fou che è il primo diretto richiamo alla nouvelle vague riferimento chiave che emerge dalla varietà dei registri, dall'antinaturalità delle scelte (a cominciare dalla letteraria narrazione fuori campo), dall'adozione di una estetica cinematografica nella quale trova spazio e giustificazione l'assunto della vérité (imprescindibile, come da premessa, appunto), il legame inscindibile tra cinema e vita, la rappresentazione come autoriflessione, assunto giammai smentito da molte delle istanze artificiose su cui il film stilisticamente poggia.
Il merito dell’opera è proprio quello di non forzare il dato reale, di non farne un assunto pietistico, ma di mantenerlo, come da teoria, quale elemento fondante di una ritmata e briosa narrazione, utilizzandolo in una chiave sempre squisitamente filmica, mai bassamente opportunistica; al contrario: stante il coinvolgimento diretto degli artefici del film, il trattamento a cui viene sottoposta la materia narrativa rasenta più un cinismo sbilenco che la sdolcinatura melodrammatica. Così ciò che emoziona e seduce non è mai la questione in ballo, ma la modalità scelta per metterla in scena: l’apprendimento della notizia del tumore viene mostrato da tutti i punti di vista, non soffermandosi su nessuna reazione particolare, esaltandosi, soprattutto, la secchezza e la rapidità del montaggio; il momento di crisi nella coppia viene sublimato in chiave musicale e antinaturalistica, con il dialogo a distanza attraverso un romantico pezzo (firmato Biolay), cantato dai protagonisti; l’attesa per la conoscenza del chirurgo che opererà Adam diventa un momento di tensione sciolta con una liberatoria zoomata sul volto del medico che irrompe sulla scena. A sorprendere è la sottigliezza che l’autrice dimostra nello sciogliere la complessità della questione, attraverso notazioni sempre calibrate, tra gag godardiane, minicoreografie, momenti drammatici perfettamente compiuti, l’uso spiazzante di strumenti classici e le strategiche astrazioni di questioni molto concrete: un’alta consapevolezza sovraordina ogni scena del film, tutte essendo frutto di scelte precise, mai casuali, evidenti elementi di una scacchiera razionale ordinata con scaltra precisione in cui il protocollo terapeutico del piccolo Adam diventa una griglia da riempire con invenzioni stilistiche distinte, ma sempre aderenti al dato da illustrare.
La guerre est déclarée è allora un film che non si nasconde, che prende coraggiosamente i suoi rischi, insieme libero e controllato, che non teme di suonare sfacciato, mescolando ingenuità e calcolo. La lucidissima Donzelli - che lo gira come fosse un documentario, con una fotocamera Canon - mette in gioco le emozioni senza vergogna (quel correre disperato nella corsia dell'ospedale), si muove su un crinale pericolosissimo ad alto rischio di kitsch & sentimentalismo, ma tenendo la barra dritta: felice di uno stile pop, vivace e fantasioso e, in fin dei conti rigorosissimo, la regista riesce sia nell'impresa ardua di non umiliare il risvolto intimistico e la sostanza personalistica del narrato, sia di non oscurare la limpida volontà ludica legata al suo fare cinema, non riducendo mai il suo lavoro a un mero esorcismo. Scartato anche il baratro della carineria, che si spalanca a destra e a manca, Donzelli mette in scena personaggi vivi che si muovono in un lieve teatrino esistenziale, poetico quanto basta, aperto a una costante varietà di soluzioni rappresentative, che si manifesta anche nelle eclettiche scelte musicali (da Laurie Anderson a Vivaldi fino a Peter Von Pohel). Un film che si pregia, come il precedente della regista, il notevolissimo La reine des pommes (virato più su Rohmer, ma per stile, sfrontatezza e direzione artistica in totale linea con la sua opera seconda), di una scrittura matura che è il dato forse più rimarchevole dell'operazione.
La Francia cinematografica ha un altro autore su cui contare.
