
TRAMA
Più di 65 milioni di persone hanno abbandonato le loro case per fuggire da carestie, cambiamenti climatici e guerre. Il documentario illustra la sconvolgente portata della crisi dei rifugiati. Girato in 23 paesi, il film segue una catena di storie documentando la ricerca di salvezza, rifugio e giustizia: dai campi sovraffollati alle pericolose traversate dei mari ai confini segnati dal filo spinato.
RECENSIONI
La sequenza d’apertura è già indicativa. Un drone riprende dall’alto un’imbarcazione colma di rifugiati che solca una distesa di mare infinita, perfettamente incorniciata fra i bordi dello schermo. A seguire, una camera a spalla che inciampa e sobbalza per riprendere lo sbarco. Le immagini sono riprese dal regista, il noto artista cinese Ai Weiwei, ripreso a sua volta da una seconda camera che lo mette in scena e ci invita ad allineare il nostro sguardo al suo. Ma è possibile allinearsi ad un non-sguardo, ad una visione acritica, ad un gesto smaccatamente auto-celebrativo?
Affidandosi ad un un totale di 12 direttori della fotografia (fra cui Ai Weiwei stesso e il leggendario Christopher Doyle), Human Flow fa dell’estetizzazione il proprio scopo conclamato, un obiettivo che viene però perseguito con una ingenuità pressoché totale. L’alternarsi vacuo di droni e tecniche di ripresa più tradizionali, con la camera a terra o a spalla, si fa chiaro segnale di una falla interpretativa, di un’ignoranza sulla funzione e sulla pratica degli stili cinematografici, dispiegati come significanti vuoti dalla portata espressiva meramente superficiale. La ricerca della “bella immagine” o di una fantomatica “immagine documentaria” non è certo condannabile in sé, ma rivela in questo caso un fallimento ben più sostanziale dell’intero progetto: la mancata comprensione del fenomeno epocale che ci si propone di ritrarre e spiegare. Ai Weiwei sente di poter accostare la propria persona – quella dell’artista perseguitato in rotta di collisione con il regime – alle vicende dei rifugiati a cui si sente probabilmente accomunato da un destino generale di persecuzione. Ma la valenza critica e politica di una narrazione guidata da una celebrità globalizzata al soldo di una produzione transnazionale, fra cui spiccano fondi tedeschi e americani, rimane quantomeno dubbia. Ne deriva un bignami nozionistico che nulla aggiunge alla comprensione del fenomeno, un interminabile campo minato (140 minuti) disseminato di didascalie e riferimenti intertestuali che forniscono dati catastrofici mai approfonditi e dunque sempre più astratti e svuotati di significato. Diventa chiaro dunque lo scopo comunicativo e il target del film, una sorta di “introduzione alla crisi dei rifugiati” per lontani spettatori d’oltreoceano poco aggiornati sulle vicende dall’emisfero opposto.
