Documentario

HUMAN FLOW

Titolo OriginaleHuman Flow
NazioneGermania
Anno Produzione2017
Durata140'
Fotografia

TRAMA

Più di 65 milioni di persone hanno abbandonato le loro case per fuggire da carestie, cambiamenti climatici e guerre. Il documentario illustra la sconvolgente portata della crisi dei rifugiati. Girato in 23 paesi, il film segue una catena di storie documentando la ricerca di salvezza, rifugio e giustizia: dai campi sovraffollati alle pericolose traversate dei mari ai confini segnati dal filo spinato.

RECENSIONI

La sequenza d’apertura è già indicativa. Un drone riprende dall’alto un’imbarcazione colma di rifugiati che solca una distesa di mare infinita, perfettamente incorniciata fra i bordi dello schermo. A seguire, una camera a spalla che inciampa e sobbalza per riprendere lo sbarco. Le immagini sono riprese dal regista, il noto artista cinese Ai Weiwei, ripreso a sua volta da una seconda camera che lo mette in scena e ci invita ad allineare il nostro sguardo al suo. Ma è possibile allinearsi ad un non-sguardo, ad una visione acritica, ad un gesto smaccatamente auto-celebrativo?
Affidandosi ad un un totale di 12 direttori della fotografia (fra cui Ai Weiwei stesso e il leggendario Christopher Doyle), Human Flow fa dell’estetizzazione il proprio scopo conclamato, un obiettivo che viene però perseguito con una ingenuità pressoché totale. L’alternarsi vacuo di droni e tecniche di ripresa più tradizionali, con la camera a terra o a spalla, si fa chiaro segnale di una falla interpretativa, di un’ignoranza sulla funzione e sulla pratica degli stili cinematografici, dispiegati come significanti vuoti dalla portata espressiva meramente superficiale. La ricerca della “bella immagine” o di una fantomatica “immagine documentaria” non è certo condannabile in sé, ma rivela in questo caso un fallimento ben più sostanziale dell’intero progetto: la mancata comprensione del fenomeno epocale che ci si propone di ritrarre e spiegare. Ai Weiwei sente di poter accostare la propria persona – quella dell’artista perseguitato in rotta di collisione con il regime – alle vicende dei rifugiati a cui si sente probabilmente accomunato da un destino generale di persecuzione. Ma la valenza critica e politica di una narrazione guidata da una celebrità globalizzata al soldo di una produzione transnazionale, fra cui spiccano fondi tedeschi e americani, rimane quantomeno dubbia. Ne deriva un bignami nozionistico che nulla aggiunge alla comprensione del fenomeno, un interminabile campo minato (140 minuti) disseminato di didascalie e riferimenti intertestuali che forniscono dati catastrofici mai approfonditi e dunque sempre più astratti e svuotati di significato. Diventa chiaro dunque lo scopo comunicativo e il target del film, una sorta di “introduzione alla crisi dei rifugiati” per lontani spettatori d’oltreoceano poco aggiornati sulle vicende dall’emisfero opposto.

 A gravare in maniera fondamentale sul film è anche il gesto di auto-promozione plateale con cui Ai Weiwei mette in scena se stesso. Human Flow è punteggiato da scenette al limite dall’autoparodia: Ai Weiwei che gioca coi bambini rifugiati, che cucina il kebab nel campo profughi, che conforta una donna velata in lacrime (questa, fra l’altro, forse una scena meschinamente recitata: colta da un conato di vomito per il troppo dolore, la donna trova il conforto di un secchio – guarda caso – perfettamente inquadrato e a portata di mano fin dall’inizio della scena). E ancora Ai Weiwei che si fa radere i capelli, che inscena un simbolico scambio di passaporti con un rifugiato dichiarandogli il suo rispetto, un selfie (!) mentre regge un cartello in cui si dichiara “dalla parte dei rifugiati”. Proprio questo è in fondo Human Flow: un lungo selfie con tanti hashtag dozzinali, pronti ad aprire connessioni effimere, poco significative, superficialmente reali.