TRAMA
Willy Wonka, eccentrico magnate del cioccolato, mette in palio cinque golden tickets all’interno delle barrette; chi li troverà potrà visitare l’affascinante e misteriosa fabbrica. Charlie è un bambino povero ma la speranza è l’ultima a morire.
RECENSIONI
Tim Burton lo sfrontato: dopo il film chiave BIG FISH, e prima del ritorno all'animazione di CORPSE BRIDE (di cui già si gode un gustosissimo trailer), particolarmente temeraria è stavolta l'impresa del californiano. WILLY WONKA AND THE CHOCOLATE FACTORY (da quel geniaccio di Roal Dahl) è una fiaba amatissima dagli americani, misconosciuta da noi ma radicata laggiù nell'immaginario collettivo con la prepotenza della sola MARY POPPINS: offrire questo remake, è chiaro, può essere boccone dolceamaro, facendo leva sul bacino popolare - per raccogliere il discorso sullo storytelling che Burton coltiva da sempre - ma contemporaneamente impigliandosi in esso. Un nodo, questo, che accompagna irrimediabilmente la pellicola e non sarà mai sciolto del tutto.
Dopo i mirabolanti titoli di testa (una vera burtonata, dove il cast annega nella cioccolata) CHARLIE si adagia su una scelta piuttosto comoda: ripercorrere fedelmente le tracce dellamabile originale (regia di Mel Stuart, 1971) differendo da esso in alcuni snodi specifici (per i maniaci del confronto, tre gli autentici innesti: i flashback di Willy Wonka, l'esilarante sequenza dei criceti, l'epilogo) ma piuttosto riverente al prototipo. Per il resto, la storia del piccolo Charlie alle prese con il golden ticket è la più classica delle favole: manicheista, timida ed istruttiva, pazzerellona ma con un finale edificante. Su questa tela Burton spalma le proprie lampanti ossessioni, tra cui la celebre deformità come suo marchio di fabbrica (ogni bambino è freak: tutti tarati da solari difetti, dall'obesità alla boria, passando per la la miseria 'altra' di Charlie - d'altronde anche Wonka fu mostro, come dichiara la sua memoria) declinandole stavolta in versione bonaria: al solito l'impulso circense è straripante (i balletti degli Ompa Loompas), tutto è fatato e meraviglioso come attraverso lo specchio (la fabbrica, ennesimo mondo a parte), il gotico ammicca alla sala (richiamando Halloween) ma tutto s'inchina alla morale della favola. Da qui un nucleo centrale meccanico e tremolante, in cui i bambocci finiscono puntualmente preda dei loro vizi al mero obiettivo di agevolare la continuity; se Burton continua a pescare a piene mani nel folklore americano - anche cinematografico, con esilarante assenza di pudore: vedi la parodia di PSYCHO e 2001, con una barretta di cioccolato al posto del monolito, tra farsa ed impertinenza stavolta appare legato ad un progetto obbligatorio, dove i doveri del rifacimento travolgono l'autore in sé stesso. Malgrado questo, il regista resta lontano dallopaca saltimbancheria: è un menestrello che coccola il suo plot, lo riempie di piste fuorvianti (la spy story, il confronto familiare), gioca e si diverte con pubblico e personaggi. Inferiore all'originale CHARLIE è un Burton in vacanza, spassoso certo, ma rigorosamente a mezzo servizio.
Cade sulla musa Deep la scelta naturale del regista, non priva di autoironia; ma le molteplici sfumature del suo personaggio, la spiazzante logorrea, i tranelli e i giochi di parole gettano sinistri presagi sul nostro doppiaggio.
La musica di Danny Elfman accende lo schermo con la divertente sequenza che accompagna i titoli di testa: in un tripudio di colori e marchingegni sofisticati prende forma la mitica tavoletta di cioccolato di Willy Wonka. Cinque incarti nascondono altrettanti biglietti d'oro che permetteranno ai fortunati vincitori di vivere un'intera giornata a stretto contatto con il folle creatore di quell'universo affascinante e misterioso. La brillante partenza lascia presagire un tuffo nella magia, ma le più che lecite aspettative trovano insormontabile ostacolo nelle trappole moraleggianti del solito racconto edificante. La fedeltà al libro di Roald Dahl finisce infatti per limitare la creatività del geniale Tim Burton, che prova ad annerire la storia, ma finisce per restare invischiato in una stucchevole melassa. Fin dall'inizio, con la scusa della favola, viene proposto un modello di famiglia quasi aberrante per il buonismo che lo caratterizza: padre lavoratore che viene licenziato ma se ne fa subito una ragione, madre casalinga sempre dietro a tagliare cavoli, bambino tanto buono, modesto e sognatore, con contorno di ben quattro nonni, tra il petulante e il dormiente, che condividono serenamente lo stesso lettone. Nonostante tutto vada per il peggio, il sestetto accantona qualsiasi pulsione e vive, perlopiù d'aria, in una topaia sbilenca in totale armonia. Ovviamente il bambinetto sarà uno dei cinque fortunati a trovare l'incarto dorato e, ancora più ovviamente, sbaraglierà la concorrenza nel raggiungimento del premio "più meraviglioso che ci sia". Tra l'altro con ben poca fatica, vista la esasperata antipatia degli avversari. Si dirà che la trama è solo uno degli elementi del film e che l'estro di Burton ha modo di esprimersi al meglio nel fantastico mondo dello schizzato protagonista, ma se è vero che le coloratissime scenografie e alcune idee (il chewingum che sostituisce un pasto completo, la cascata di cioccolato, gli scoiattoli addestrati per sbucciare le noci) soddisfano l'occhio e divertono, l'insieme non decolla mai, ingessato in un ritmo blando che si affida unicamente all'iterazione. Lo stesso schema narrativo, infatti, viene ripetuto ben quattro volte, una per ogni moccioso in gara (protagonista perfettino escluso): tour all'interno della fabbrica, interruzione a causa dell'insolenza di uno dei bambini, conseguenza devastante, stacchetto cantato. Eh sì, perché la conclusione di ogni siparietto viene affidata allo show musicale, grottesco e pieno di citazioni, degli "Umpa-Lumpa", una sorta di pigmei tutti uguali con la faccia identica a quella di Tony Renis (una forza lavoro, tra l'altro, ideologicamente discutibile). L'anima del progetto dovrebbe essere l'ennesimo freak affidato al talento interpretativo di Johnny Depp, ma anche la sua prova risulta sottotono: ammicca al dark ma lo evita, prova a esagerare ma si frena, e vaga con insipido candore distribuendo battute moscie e sguardi stralunati. Perfetto per il ruolo sarebbe stato l'insopportabile Paul Reubens, già compagno di Burton nelle scorribande nonsense di "Pee-Weès Big Adventure", ma le sue scelte sessuali lo hanno portato fuori mercato. Forse, però, è proprio il personaggio a non godere di sufficiente approfondimento. Basta pensare alla problematicità solo apparente del suo conflitto, risolta senza un vero perché nel finale sbrigativo e riappacificatore (con tanto di inciso fuori campo, caso mai qualcuno non avesse capito).
Grande successo commerciale in America, dove il libro di origine e il film del 1971 con Gene Wilder sono diventati fenomeni di culto, il lungometraggio di Burton sembra destinato anche da noi a conquistare il botteghino. Meglio attendere, però, per riconciliarsi con l'autore e la sua personale visione, l'estusiasmante "La sposa cadavere", a breve sui nostri schermi.