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TRAMA
Jeanne Charmant-Killman, magistrato, indaga suelle malversazioni di una grossa società._x000D_
RECENSIONI
Il titolo originale del film (L’ebbrezza del potere) rende sicuramente meglio l’ambiguità della questione: non solo al dominio sconsiderato dei signori dei piani alti ci si riferisce ma anche al potere crescente della giudice protagonista che nel cuore di quel mondo corrotto è pronta a colpire, bazooka alla mano. E che la protagonista sia una soldatessa nell’adempimento di una missione il regista ce lo sottolinea con alcuni gustosi dettagli (quei guanti rossi, come una divisa, indossati solo sul lavoro). Chabrol, come ne Il fiore del male coniuga pubblico e privato, il potere ubriaca anche il magistrato la cui ascesa vertiginosa porta al deperimento del rapporto coniugale, allo stacanovismo, a tensioni e paranoie. Una lotta al Male portata avanti con un’escalation dirompente e che vela un conflitto di classe, come si desume dal riferimento alle umili origini della donna che la sua posizione l’ha guadagnata sul campo, giocando a modo suo, ignorando le regole consegnate al silenzio, i taciti accordi sottobanco. Chabrol, che tende a neutralizzare il registro televisivo dominante con un uso molto studiato dei primi piani e con minimi spostamenti di macchina, devianti, quasi furtivi, che mettono in evidenza dettagli, tracce, indizi, simboli quotidiani solleciti nell’arricchire un ordito sagace, riesce a rendere bene le rappresentazioni di un teatrino popolato dalle grottesche maschere del Potere e ad alternare il discorso politico con quello intimo, la satira al dramma, consegnandoci, in più, l’ennesimo, splendido ritratto femminile (la Huppert in evidente rapporto alchemico col regista): in fondo i veleni della provincia, il mondo prediletto dal regista, sono ancora lì, l’occhio si è soltanto allontanato a ricomprendere un quadro sì più ampio ma dominato dalle stesse identiche logiche. Finale sconsolato: forse tutti gli sforzi sono inutili, il marcio rimane, la vita intanto passa e pare che niente valga a nulla. Quel “Che se la sbrighino” è un masso pesante che cade dall’alto e tappa ermeticamente le bocche già pronte al dibattito.

La metafora del “pugno di ferro in guanto di velluto” non aveva ancora conosciuto un'applicazione geometrica, algida e danzante come quella che Isabelle Huppert realizza qui, col suo passo leggero, le mani guantate di rosso che rovistano in borsette o agitano decreti di perquisizione davanti al naso di criminali in colletto bianco, e con i suoi movimenti quasi musicali (per capire cosa intendiamo, prestate attenzione al momento in cui dà l'ordine di forzare una cassaforte), tanto più feroci nel loro sadismo perché non espliciti e sottolineati ma imprigionati in un volto impassibile, in modi glaciali ma civilissimi. A questo riguardo, se esemplari sono le scene degli interrogatori, eccezionale è quella in cui si consuma la crisi coniugale, ove avvertiamo quanta parte vi sia d'irriflesso, di cieco e di sostanzialmente nevrotico nel comportamento della protagonista, che a una ferrea razionalità strumentale sposa una visione come disanimata dei rapporti umani: pure variabili, funzioni del potere e della dipendenza.
Ancora una volta si possono ammirare la lucidità e l'asciuttezza della scrittura del regista (il rifiuto del virtuosismo fine a se stesso è drastico: ogni movimento di macchina scopre e disvela, al pari dell'implacabile magistrata, senza riguardi per niente e per nessuno), come la crudeltà delle sue notazioni: la protervia e il senso di impunità, la nullità intellettuale, il triviale e avido perbenismo degli incriminati – con le loro amanti semiclandestine e le famiglie rispettabili – sono resi in modo straordinario, e richiamano alla mente parecchi briganti di successo di casa nostra.
Se l'essenzialità del linguaggio sconta qualche inerzia nello sviluppo narrativo, essa recupera al proprio incedere uniforme non soltanto la ferocia urticante della diagnosi, ma anche il provocatorio cinismo e la violenza giacobina della suggerita (tra le righe) terapia: contro i mostri da niente che fanno strame del bene pubblico, occorrono non già intelletti apparentemente nobili ed equanimi, in realtà pusilanimi o ignavi, ma spiriti animati da un sentimento anche più forte, benché tutt'altro che aristocratico. L'Ebbrezza del Potere, suona il titolo originale del film (chissà perché così mal tradotto); la gelida ebbrezza di Jean Charmant-Killman – un doppio cognome che è un gioco di parole – corrisponde all'odio di classe di Sophie e Jeanne (Il Buio nella Mente) e all'ansia di rivalsa di Marie (Un Affare di Donne); i loschi traffici dei suoi antagonisti sono l'ennesimo volto delle miserabili ambizioni sociali (La Damigella d'Onore) o politiche (Il Fiore del Male) della borghesia. Possiamo forse turbarci, se questo autentico corpo criminale la cui capacità di seminare freddamente la morte è stata più volte ritratta da Chabrol, e che si aggiusta la coscienza con le sentenze dei tribunali (il pubblico ministero di Un Affare di Donne chiede la vita dell'imputata come faceva l'accusatore de La Peste) per poi recarsi in villeggiatura, viene contrastato con ogni mezzo – a cominciare dalle sue stesse armi, la legalità e il rispetto delle forme?
