TRAMA
Simon vive con Ariane: la sorveglia, la interroga, la segue ovunque.
RECENSIONI
Dopo la presentazione all'edizione di Cannes del 2000 (e al Torino Film Festival dello stesso anno) sembravano ormai perse le speranze di una distribuzione italiana del film di Chantal Akerman. Alla chetichella, come spesso accade per certe pellicole belle e difficili, arriva finalmente nelle sale (destinato, crediamo, a sparirvi presto) un gioiello che dovete affrettarvi ad ammirare: Akermann adatta La prigioniera di Proust rendendo con poche e felici tocchi l'amore di Simon per Ariane come passione paranoica, ossessione totalizzante. A una narrazione lineare l'autrice preferisce un continuo di immagini che pongono sullo sfondo la fonte letteraria, senza ridurla a pretesto, ma che ne distillano lo spirito. Chi ha letto il capolavoro proustiano ne trova puntualmente gli elementi, ne apprezza l'oculato lavoro di riduzione, cogliendo riferimenti e allusioni (la prima stupenda scena delle fanciulle sulla spiaggia che fa riferimento alla "brigata" del romanzo), gli altri leggendovi un apologo sull'incolmabile distanza tra uomo e donna nelle spire di un rapporto malato. In entrambi i casi la misura e il tono sospeso, carico di sottintesi, del racconto, la sua forza espressiva, i vuoti calcolati, l'impegno nella resa dei dettagli finiscono con l'imporsi su tutte le altre suggestioni, traducendosi alla fine in un collage emozionale al quale diventa difficile sottrarsi.
"La captive" è qualcosa di più di una magnifica messa in scena dell'impossibilità del sentimento amoroso tra un uomo e una donna (tra gli uomini e le donne), "La captive" è il decadimento di una classe che non c'è più, il tentativo vano di coniugare un sentimento nobile e un ambiente nobile, quello aristocratico, sublime, alto, impeccabile, riservato, composto, silenzioso. L'amore è un semplice accostamento di persone, estranei che si avvicinano per consumare amplessi in vestaglie di seta, che sciolgono la loro sporcizia e i loro odori in acque adiacenti, separate da un vetro. Chantal Akerman gioca a frapporre sottili e invalicabili distanze tra i suoi personaggi, distanze all'interno delle quali si spera forse che nasca un sentimento, lontano da ogni volgarità, persino diffidente nei confronti della carne e dei corpi, così come dai pensieri e dalle parole altrui. All'interno delle distanze resta invece un vuoto, una lacuna incolmabile della cui presenza qualcuno nemmeno si era accorto. Giudicherà la morte, in un magnifico notturno marino.
Ossessionato da una gelosia retrospettiva nutrita di morbido (dis)gusto, Simon cerca di non perdere di vista la 'sua' Ariane: la pedina, ne origlia le conversazioni, verifica con fremente tranquillità l'esattezza delle sue risposte, dei suoi alibi, dei suoi silenzi. Simon ama non Ariane, ma la sua immagine, la sua ombra (in)seguita nelle silenziose strade di una Parigi immersa nella luce o nel sonno, il suo spettro sospeso/sorpreso in un cereo dormiveglia, il suo sguardo colto nella rete indiscreta di una videocamera, il riflesso della sua bellezza nelle labirintiche stanze di un museo, di un appartamento i cui disumanati fasti in via di sgretolamento non possono, non devono essere turbati (neppure per un restauro). L'idolo va preservato tramite un controllo ininterrotto delle azioni, dei pensieri, dei ricordi della ragazza. Ma, nonostante gli sforzi di Simon, Ariane parla, canta, incontra le amiche, cerca di assicurarsi istanti di libertà tanto più preziosi quanto più fuggevoli. Sospetti, bugie e mezze verità incatenano gli amanti l'uno all'altra: la vicinanza (s)forzata ne fiacca il corpo, la perenne incertezza ne divora lo spirito, la separazione è intollerabile quanto la vicinanza. Simon cerca scampo nell'illusione [abborda una prostituta che gli ricorda vagamente l'amata e la guarda (fingere di) dormire], ma senza risultato; oppressa dalla tirannica (in)decisione del giovane, Ariane si abbandona al mare, che la trasformerà in pura immagine della memoria, limpida sequenza di fotogrammi di una partita velatamente amorosa sulla sabbia (o sotto).
Sconsolata riflessione sulla natura inappagabile dell'eros, La Captive emana lo stesso fascino impalpabile che forza il protagonista a dipendere totalmente dal fantasma di Ariane: il film è un susseguirsi di immagini di infinita bellezza (l'estatico prologo, la carrozzeria dell'automobile in cui si rispecchiano le architetture urbane, il libertino duetto notturno dal Così Fan Tutte) su cui indugia l'occhio di chi osserva, nel buio incognito della sala cinematografica. Finché il rumore del mare, eco dei titoli di testa, s'insinua fra la musica e le parole, deflagra, tronca orrendamente e irrimediabilmente l'esistenza dei personaggi e l'esperienza della visione.