Drammatico

LA CAJA

Titolo OriginaleLa caja
NazioneMessico, U.S.A.
Anno Produzione2021
Durata92'
Sceneggiatura

TRAMA

Hatzin, un adolescente di Città del Messico, è in viaggio per recuperare i resti del padre, trovati in una fossa comune tra gli immensi cieli e i vuoti paesaggi del nord del Messico. L’incontro casuale con un uomo fisicamente somigliante al padre lo riempie di dubbi e speranze su dove questi sia davvero finito.

RECENSIONI

Lorenzo Vigas è un autore poco prolifico e interessante. Dopo il debutto con Ti guardo, Leone d’Oro a sorpresa del festival di Venezia 2015, torna in concorso in laguna con la sua opera seconda di fiction, un oggetto enigmatico e affascinante dall’andamento rarefatto, in cui sembra che poco accada mentre invece nuove dolorose consapevolezze cambiano per sempre il destino dei personaggi. La cassa del titolo è quella che un adolescente messicano, Hatzin, recupera nel nord del paese e che contiene i resti del padre trovato in una fossa comune. Una delle prime caratteristiche dell’approccio di Vigas è quella di parlare delle derive dei paesi sudamericani (lui è venezuelano) senza aderire a tesi, perlomeno non in modo esplicito, ma lasciando che siano i personaggi con il loro agire e determinare un punto divista sugli eventi di cui sono protagonisti. Il ragazzo incontra lungo la strada del ritorno Mario, un uomo che è sicuro sia suo padre, perché gli assomiglia moltissimo, e riesce faticosamente a stabilire un legame con lui. Mario ha un aspetto rude ma apparentemente mite, sembra quasi un benefattore, in realtà si rivela losco e con più di uno scheletro nell’armadio. Gestisce infatti un traffico di forza lavoro sottopagata e, come spesso accade nei luoghi in cui la vita umana non ha valore, più che gestire i problemi li elimina.

Tra Hatzin e Mario si crea, dopo un’iniziale diffidenza, un legame, dapprima pragmatico (qualcuno in più che lavora), poi via via più profondo e con radici affettive. Il film è tutto giocato su questa ambiguità: l’uomo incontrato è davvero il padre? Il film aggiunge dettagli, attraverso una sceneggiatura che progredisce in modo sottile senza mai optare per l’ovvio, consentendo però allo spettatore di interpretare i fatti in base alla propria sensibilità e capacità intuitiva. Curioso come il finale non sia affatto aperto ma lasci comunque spazio al dubbio, ed è proprio questo indurre al ragionamento con finezza a lasciare conciliati. Nel cambio di generazione rispetto al film precedente (e anche al corto di esordio del 2004 Los elefantes nunca olvidan) una costante è lo smarrimento dei figli nei confronti dei padri, assenti o come se lo fossero, abbinata alla incapacità di interrompere la spirale di violenza del contesto in cui sono inseriti. La regia rischia di risultare poco incisiva o estetizzante, in realtà Vigas ha le idee chiare, non vuole sedurre lo spettatore, ma lascia che sia l’incedere del racconto, inizialmente poco a fuoco, a conquistarlo progressivamente. Parte quindi un po’ in sordina, lascia presagire un percorso emotivo, ma sembra girare a vuoto e non giunge mai a un momento catartico davvero liberatorio. Ciò lo rende un oggetto strano, a tratti respingente, ma è anche parte del suo fascino.