TRAMA
Enzo e Mary: una vita trascorsa dietro le sbarre lui, una trans con un passato da eroinomane lei. Intorno a loro Genova, una città di memorie sedimentate, vicoli trafficati e acqua salata.
RECENSIONI
La Fondazione San Marcellino (Opera dei Gesuiti attiva a Genova dal 1945), L'Avventurosa Film (laboratorio produttivo scaturito dall'intesa tra Pietro Marcello e Dario Zonta) e Indigo Film (già al fianco di Marcello nel 2007 per Il passaggio della linea) uniscono le loro forze per dare vita al progetto La bocca del lupo, vincitore del 27º Torino Film Festival e oggetto filmico irriducibile alle categorie di documentario/lungometraggio di finzione. Ispirandosi idealmente all'omonimo romanzo verista di Remigio Zena (nom de plume di Gaspare Invrea), Marcello accoglie la proposta fattagli dalla Fondazione di girare un film su Genova "vista dal basso" e con la collaborazione di Sara Fgaier, montatrice nonché ricercatrice di immagini di repertorio, concepisce una pellicola cruda e delicata, distante tanto dal pietismo di denuncia quanto dal sensazionalismo d'accatto. Intorno a due soggetti marginali e profondamente segnati dalla diversità (l'illegalità incallita di Enzo, la transessualità tossica di Mary) il trentatreenne cineasta casertano costruisce uno spartito filmico di grande respiro spaziale e temporale, incastonando la loro storia di amore in un organismo a cerchi concentrici che vibrano all'unisono. La piccola casa nel ghetto della città vecchia, i movimentati caruggi dell'angiporto, gli scorci di una Genova dominata dalla sopraelevata e scossa dalle continue riconfigurazioni portuali, Quarto dei Mille e i suoi "moderni abitanti delle caverne": tutto si situa in una dimensione che intreccia il particolare al generale (la vicenda sentimentale ed esistenziale della coppia e il tessuto urbano della città), il reale al lirico (le riprese dal vero nei vicoli e la voce over che distilla suggestioni quali "Solo il moto ondoso del mare segna il tempo") e, soprattutto, l'attuale al passato (l'hic et nunc e le primonovecentesche immagini d'archivio, vera e propria "archeologia della memoria"). Marcello rifiuta con fermezza l'ingenua e abusata etichetta cinema della realtà: giunto al quarto lavoro, sa perfettamente che "qualsiasi intervento altera inevitabilmente l'oggettività del reale". La presenza della camera condiziona e determina irrimediabilmente la materia osservata, per quanto essa possa sembrare radicata negli uomini e nelle cose. Non c'è che un mezzo per evitare di brutalizzarla e schematizzarla: agire sulla composizione, stratificare la rappresentazione, variare i punti prospettici. Il suo digitale non si accontenta di tallonare Enzo nel ritorno a casa e nelle uscite serali, ma si abbandona a derive su figure collaterali (le trans dei caruggi, l'umanità varia incontrata al bar), in cui la messa in scena si fa tangibile e conclamata. Ma quando è il momento di offrire a Mary e Enzo lo spazio di raccontarsi in tutta la loro singolare intimità, lo sguardo di Marcello si arresta in un'inquadratura fissa, senza sottolineature retoriche o posizioni moralistiche. Netta, frontale e immobile, la camera scruta i loro volti e i loro corpi, pudicamente occasionando un racconto che, una parola dietro l'altra, mette a tacere qualsiasi rigurgito giudicante. Questo è La bocca del lupo: non cinema della realtà, ma realtà che si fa cinema.