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TRAMA
Coppia numero 1: lei, doppiatrice, attraversa l’Oceano per far luce sul suo passato; lui, attore, accetta di partecipare ad una ridicola fiction televisiva e tradisce la moglie. Coppia numero 2: donna di mezza età abbandonata dal marito si consola con lesbica non vedente.
RECENSIONI
Tratto dal suo romanzo omonimo pubblicato qualche anno fa, La bestia nel cuore di Cristina Comencini ambisce ad illuminare i “rimossi” oscuri della coscienza di ognuno, le intime “bestialità” che hanno nidificato nel subconscio, ad indagare sul “non detto” del vissuto, sulla cancellazione delle ferite del passato non rimarginate e più in generale ad elaborare un discorso universale sulla riacquisizione di sé attraverso un viaggio fisico (nel caso specifico la protagonista vola negli Stati Uniti dal fratello docente universitario) ed interiore. Purtroppo, la regista non ha il coraggio di andare fino in fondo, di oltrepassare la superficie degli eventi e le maschere degli agenti, forse per non turbare il pubblico televisivo: per questo, arrischia il delicatissimo mélangecomico/tragico, compromettendo l’equilibrio e l’unità di tono del racconto. Sebbene gli intermezzi “leggeri” mal si amalghino e risultino quasi sempre appiccicaticci ed ammiccanti, sono, di fatto, i più riusciti, in particolare quelli che hanno per protagonista l’efficacissima Angela Finocchiaro, l’unica credibile del cast assieme a Lo Cascio (la Mezzogiorno è inadeguata al ruolo, la Rocca sfida sprezzantemente il ridicolo uscendone sconfitta, Boni pare adeguarsi agli standard recitativi della tanto sbeffeggiata fiction che interpreta nel film). I rari momenti drammatici realmente efficaci (in primis, la festa di capodanno) non riescono a compensare le numerosissime cadute di stile (dalla “rottura delle acque su treno in movimento” ai tremendi frammenti onirici). Il tutto sembra irrimediabilmente figlio (un figlio smemorato che non riconosce il padre…) di un’estetica paratelevisiva che l’autrice cerca vanamente di occultare dietro una patina da prodotto “radical chic” da esportazione, medio-borghese e moderatamente cultivé: bella fotografia, elaborati movimenti di macchina, effetti di quadro nel quadro, fastidiosa ostentazione di “prodotti della cultura” (quadri, libri, musica classica). La carrellata sui “maestri” del cinema italiano che precede ed introduce l’implicito riferimento al “cosa siamo diventati”, mediato dal personaggio del regista divoratore di sushi sceso a compromessi dopo una brillante carriera teatrale, che pontifica sulla morte del cinema fagocitato dall’“estetica del mondezzaio” di matrice televisiva, produce un inevitabile “effetto boomerang”, ritorcendosi contro una regista intelligente ed ambiziosa che, forse inconsapevolmente, “parla” la stessa “lingua” e segue la stessa logica che vorrebbe combattere.

La cinepresa plana sulla Mezzogiorno, foglia tremante tra le lenzuola, poi inquadra la patta del pigiama del suo uomo ed affonda nel buco nero del pene: i genitali maschili sono il tunnel dell’orrore in cui si perde Sabina, viaggio pelvico e ritorno, ma nella maternità troverà sé stessa. La sua migliore amica sogna di baciarla teneramente ma poi si accaserà con un’allegra cornuta stagionata; il suo uomo da solo proprio non ci sa stare, quindi conoscerà carnalmente una fulva attricetta approcciata in una sorta di E.R.. Il babau è dietro l’angolo, dietro ancora c’è la riconciliazione; ancora non basta? Questo ed altro è LA BESTIA NEL CUORE, tipico prodotto medio italiano: crisi di coscienza di personaggio normale, lotta contro il rimosso e riesumazione di scabrose verità, inciampo nel nobile tema (che sia l’incesto o i bambini africani o un etto di mortadella a metà prezzo, poco importa), crisi ed infine sollievo. Una tendenza (colpisce ancora la 01, mefistofelico pseudonimo per RaiCinema, con il suo “film di interesse nazionale”) da considerare inaccettabile tantopiù che viene sventolata ad un Festival internazionale, a confronto con autori mondiali: la Comencini, adattando un suo stesso romanzo, scopre ogni carta nei primi cinque minuti (compreso un grottesco omaggio al suo vecchio, volgarmente prigioniero di un poster) e, dopo aver abbozzato un accento onirico abusato ma di discreta inquietudine, confeziona una schiocchezzuola da boato a scena aperta. C’è tanta tivvù nelle nostre case; perché, allora, rifarla al cinema? Il film è una qualsiasi puntata televisiva da consumarsi intorno a mezzogiorno, dilatata sciaguratamente molto oltre la mezzora di prammatica; in un bombardamento di buchi narrativi e snodi inverosimili si innestano scene madri urlate sguaiatamente (la piazzata di Capodanno), psicologismi da Freud febbricitante (il fratellino, molestato dal padre, evita a sua volta il contatto fisico con la prole), losche rivelazioni intuite dai titoli di testa. Al momento di tirare le fila il racconto fa harakiri, il trash trionfa: il calvario di Sabina, che rompe le acque in un vagone ferroviario, si sovrappone nel montaggio alternato all’immagine di lei bambina, un pulcino nel corridoio oscuro, pronta ad essere violata da quell’amore di papà.
Cast da roulette russa: Giovanna Mezzogiorno, tutta una boccaccia, guadagna la Coppa Volpi con il suo ininterrotto piagnucolio; il solitamente dignitoso Lo Cascio viene imboccato di un cumulo di fesserie (tra cui una spolverata di borotalco sulla chioma) e cade rovinosamente; Stefania Rocca, la migliore del mazzo, si irrigidisce appena più del dovuto, la Finocchiaro si ricicla lesbica, Alessio Boni non è mai esistito.
LA BESTIA NEL CUORE sembra girato su misura per chi lamenta la cronica assenza italiana dinanzi al Leone d’Oro: un film nato morto, più aborto che incesto, che ha già tessuto parecchi consensi in virtù del suo sfondo sociale “virtuoso” e “commovente”. Sarà, ma lontano dai circoli frigido/femministi e dalle associazioni per la tutela dei minori il cinema è già evaporato.

Qui e ora cosè un film italiano. Quasi mai un film di qualcuno, spesso un film con qualcuno, quasi sempre un film su qualcosa. Il cinema italiano procede per temi: La bestia nel cuore è lo sceneggiatone in due puntate con Giovanna Mezzogiorno (domenica sera su RAIUNO, lunedì la seconda parte, così reciterebbe il TG è un film italiano? E un film RAI? Allora il TG ne parla -) sulla violenza familiare, segue dibattito (in salotto, in cucina, in ufficio, online). Qui e ora cosè un film italiano. Uno schemino da rimpolpare, un paradigma da spacciare attraverso la narrazione di una storia che spieghi la questione in ballo, la magagna, il benedetto problema (Le molestie sessuali in famiglia: cause, possibili rimedi . Svolgimento: Uno dei nodi gordiani del nostro vivere in società oggigiorno è costituito
). Qui e ora cosè un film italiano. La propagazione dellinchiesta giornalistica condita da psicoanalismi daccatto, dialoghi improbabili, belli da teleromanzo. Qui e ora cosè il cinema italiano. Un assemblaggio di elementi: non cè mai organicità nelle opere di questi autorelli miracolati, i film non hanno compattezza, sono sempre costituiti da filoni messi insieme alla meno peggio, una storia esilissima a fare da fil rouge e siparietti a condire: il dramma (quello della protagonista e del fratello), il tasto dolente (lhandicap dellamica), lelemento liberal (la relazione lesbica), una spruzzatina di comicità (lamica abbandonata dal marito), la macchietta (il personaggio del regista), amore&scappatelle, un pizzico di onirismo (una scena, magari due), un pugnetto di flashback (non lavete capita? Vi faccio un disegnino), l autoriflessione (fare cinema, fare televisione oggi: è difficile sa, signora mia, il pubblico è taaaaaanto ignorante); frulliamo tutto, diluiamo alquanto la miscela (gli ultimi 20 minuti: un disastro nel disastro) ed ecco il film importante, lopera che squarcia il velo su una realtà che cè ma sulla quale tutti tacciono. La bestia nel cuore è un film mal diretto (anche il bravo Cianchetti, direttore della fotografia esagera una mdp fin troppo mobile -), recitato così così (si stendano pietosi veli sulla Mezzogiorno e Boni, la Finocchiaro è brava ma interpreta un altro film, Luigi Lo Cascio è oggi il miglior attore italiano), scritto peggio (la quantità di registri letterario, verista, grottesco, farsesco acuisce limpressione di generale mediocrità). Il film italiano rifugge dal concetto, è vittima del tema (liceale) e quel che è peggio non riesce neanche a svolgerlo, riducendolo a un mucchietto di righe scritte frettolosamente, sottolineate tre volte e alla fine evidenziate in giallo. Il film italiano lamenta pochezza e didascalismo, è preda del terrore del pubblico, della paura che questo non capisca, che sia più stupido di chi lo sta facendo. Il film italiano narrativo non parte mai dalla storia o da un personaggio, appiccica semplicisticamente storia e personaggi a una struttura già data (di lì spiegazioni a non finire e mai un elemento diegetico che emerga con naturalezza). Tutto calcolato, tutto studiato, tutto preconfezionato. E mai il coraggio di chiudere in tempo la faccenda, prima che limbarazzo dilaghi.
Se un film italiano può essere brutto lo sarà.

Visioniamo il film in una sala stracolma – la sera prima, per Gabrielle di Chéreau erano accorsi 7 (sette) spettatori – e ci poniamo alcuni interrogativi, banali questioni di grammatica cinematografica.
È possibile dare corpo all’immaginazione di una persona cieca come se questa possedesse i nostri occhi a undici decimi? È quello che la Comencini fa, quando noi vediamo cosa passa nella testa del personaggio di Emilia che sogna di abbracciare l’amica Sabina; amica che, si badi, lei non sa come si è trasformata nei dieci anni trascorsi dalla sopravvenuta cecità.
La protagonista fa di mestiere la doppiatrice. Quand’è al lavoro, la voce da lei prestata all’attrice straniera risulta clamorosamente fuori sincrono. Ciononostante, la direttrice del doppiaggio si dice soddisfatta. Non sarebbe stato il caso di doppiare il doppiaggio? O siamo di fronte a un raffinato esempio di sarcasmo metatestuale, del tipo diffidate del doppiaggio: non vedete come lavorano questi cialtroni?
Compare una donna con occhiali da sole e stesa appunto al sole; ecco, pensa il malizioso, adesso arriva la citazione di Agata e la tempesta che a sua volta citava Parla con lei. E puntualmente la citazione arriva, con le puntualissime risate del pubblico. Si tratta di un nuovo gioco di società o cosa?
Perché le coppie lesbiche out che compaiono nei film italiani devono sempre bisticciare in una versione testosteronica dei duetti Serrault-Tognazzi (Il Vizietto) ? Se proprio si deve ricorrere allo stereotipo per compiacere il popolino, non sarebbe meglio utilizzarne uno più efficace e recuperare le lesbiche di una volta, turpi e assassine e magari naziste come quella di Roma città aperta ?
Perché un uomo che vive da dieci anni negli States, e senza aver rimesso piede in Italia, non solo parla la lingua natia senza contaminazioni americaneggianti ma si guarda bene dal pronunciare, sin quasi alla fine del film, una sola parola d’inglese, anche se sta parlando con la moglie americana e con i figli ?
Se un marito resta separato dalla moglie per qualche tempo, è comprensibile che senta la mancanza della compagna; mentre ricompone il letto disfatto, egli guarda pensoso il lato sul quale lei era solita dormire. A cosa starà pensando l’uomo? Solo uno spettatore distratto (come minimo) non lo immaginerebbe; ma la regista non si trattiene e ci mostra il bel corpo nudo della Mezzogiorno che si muove sinuoso e semiaddormentato. Cosa significa questa sfiducia verso l’immaginario, verso il potere evocativo dell’immagine e del montaggio ? In definitiva, questa sfiducia verso il cinema ?
Era necessario sottolineare il culmine del dramma (la rivelazione del misfatto del turpe genitore) con la faccia imbalsamata della Mezzogiorno, che sgrana gli occhi azzurrini più di McDowell in Arancia meccanica, e con gli irrefrenabili singhiozzi di Lo Cascio accompagnati da un moto sussultorio delle di lui spalle? Non sa la regista che un eccesso di patetismo in un momento altamente patetico rischia di svuotare la tensione – se gli attori non sono mostri di bravura – ed è comunque un espediente ricattatorio? Il modello, per i melodrammi famigliari, resta non lo scandaloso Il campione dell’ex senatore Zeffirelli, bensì Incompreso, opera di un regista arguto e generoso a nome Luigi Comencini.
