TRAMA
Belle è la terza e bellissima figlia di un mercante in rovina. L’uomo ruba per lei una rosa nel giardino di un castello, ma si imbatte nel mostruoso proprietario che impone una punizione: la giovane verrà segregata nella dimora della Bestia.
RECENSIONI
Il titolo della fiaba con La belle et la bête di Gans tocca il minimo storico. Si parte forte con inizio 'meta': una voce di donna legge una favola a due bambini, di cui una è la versione di Léa Seydoux miniaturizzata, a sciogliere subito l'eventuale dilemma sull'identità della lettrice. E via col mercante in rovina e l'ingresso di Belle che è Cappuccetto Rosso: già presentandola così, alludendo a Perrault e Grimm, il regista gioca con l'iconografia della fiaba (il padre, la figlia più bella, il mostro), suggerisce accostamenti, tenta il sincretismo tra immaginari, mescola elementi grimmiani-anderseniani, corteggia figure inconsce e sedimentate nel ricordo di (ex) bambini. La prima freccia nell'arco, come sempre, è la percezione della Bestia (Come sarà il mostro?): la dicotomia ottica vedo/non vedo domina la prima mezz'ora, ma si risolve presto in un fallimento. Se la prima volta di Belle si disimpegna, quasi elegantemente, con il volto bestiale riflesso nel bicchiere, è l'attesa per l'aspetto intero a venire frustrata: viso leonino, vaghe fattezze umane, non troppo pauroso, nessun disturbo alla vista che si adegua, riproposizione quasi letterale della figura Disney (Tutto qua?).
Gans sbaglia a mostrare il mostro, dunque. Ma non solo. In generale, rispetto alle opportunità visive il risultato è decisamente sotto le aspettative da (quasi) ogni punto di vista. Nella prima parte uno sguardo gotico convenzionale accompagna Belle nella traversata del bosco e l'arrivo al castello, poi la storia si dilunga nelle 'sfilate' di Seydoux in diversi look secondo uno schema preciso (risveglio - camminata - tramonto - incontro col mostro/designer) e la stanza della ragazza usata come camerino. Non bastano un paio di flashback sognati (peraltro narrativamente 'strani': Belle vede il passato della Bestia) né i canini Tadum scappati dall'universo Burton (soprattutto Frankenweenie) per ravvivare la situazione.
L'aspetto teoricamente rilevante è il ritorno alla fonte: non c'è nessuna lettura postmoderna, anzi è la riproposizione 'classica' di una fiaba moderna (ispirata all'originale di Madame de Villeneuve, 1740). Al tempo della rimasticatura più ardita (Hansel e Gretel strafumati, Blancanieves figlia di un torero), il passo indietro fino all'origine sarebbe da apprezzare a priori. Ma è dura quando si naviga tra poche idee visive, come i soliti giganti di natura 'peterjacksoniana', e incredibili svolte psicologiche senza evoluzione o appigli interni al racconto (Belle all'improvviso ama la Bestia). A contorno Léa Seydoux ci mette sé stessa e forse non le si chiede altro, Cassel in versione ferina si rivolge sfacciatamente al suo pubblico, Dussollier è di un altro pianeta ma in un ruolo troppo minore.
Il problema, alla fine, è che in un film di Christophe Gans non funziona ciò che ti aspetti da Christophe Gans: la co-sceneggiatrice Sandra Vo-Anh non è Avary e questo non è Silent Hill, dove il regista manovrava mirabilmente il testo fondamentale dello sceneggiatore. I nodi complessi non respirano: il rapporto padre/figlia, l'amore famigliare che conduce al sacrificio, la dittatura dell'esteriorità ('Una bestia come voi non può soddisfare una ragazza come me') che qui viene gradualmente sabotata. Perfino la scenografia in CGI lascia un senso di incompiuto: la tana dell'orco, il bosco magico, l'alternanza di chiari e scuri sono codici di un immaginario tanto spendibile quanto superato, piccole 'cose' che nel 2014 ipertecnologico non possono stupire davvero.