
TRAMA
1973. L’ex campione in pensione Bobby Riggs sfida la giovane tennista Billie Jean King. Una sfida non solo sportiva che entrerà nella storia del costume.
RECENSIONI
Lui è Bobby Riggs, leggenda del tennis, inserito nella prestigiosa International Tennis Hall of Fame nel 1967, lei è Billie Jean King, una delle più grandi giocatrici di tennis e atlete della storia. Quella che li vede protagonisti nel 1973 è molto di più di una semplice sfida. In ballo c’è il tentativo di dare uguale dignità al gioco maschile e a quello femminile attraverso un’equiparazione dei compensi (fino ad allora indiscutibilmente dispari) in grado di sancire una parità economica da cui porre le basi per lo smantellamento di disvalori all’epoca imperanti (sessismo in primis) e ancora oggi non certo risolti. Nelle mani di Jonathan Dayton e Valerie Faris - famosi come registi di video musicali e pubblicità ed esplosi cinematograficamente grazie al successo travolgente di Little Miss Sunshine (gradevole ma “reo” di avere consacrato una sorta di omologazione indipendente “alla Sundance” fatta di carinerie di provincia e affetti bislacchi) – la celeberrima partita prende la forma di un piacevole ma innocuo intrattenimento. La vicenda poteva essere affrontata da varie angolature e Simon Beaufoy (Full Monty e The Millionaire i suoi copioni più celebrati) opta per l’equilibrio cercando di scandagliare pubblico e privato di entrambi i protagonisti. Da un lato, quindi, la sfida sotto gli occhi del mondo, tra foto d’epoca perfettamente riprodotte e match abilmente ricreati, dall’altro ciò che i riflettori non riescono a illuminare: un uomo sopportato dal figlio e abbandonato dalla moglie per la sua ossessione per le scommesse e una donna alla ricerca della propria identità che si barcamena tra la ragione (un marito amabile dedito alla causa sportiva) e il sentimento (una parrucchiera in grado di regalarle nuove consapevolezze). Marito e moglie alla regia interpretano il tutto sbilanciandosi a favore dell’esuberanza di Bobby Riggs. È infatti Steve Carrell a imporre il genere, perché è il suo utilizzo in chiave tragicomica a indirizzare il film verso i binari rassicuranti della commedia. Emma Stone prova a fare sua Billie Jean King e la riveste con credibilità, ma non ha il supporto della sceneggiatura nell’andare oltre alla silhouette del personaggio. Ed è proprio il restare in superficie il maggior difetto della pellicola che si accontenta di cedere al vintage e di cavalcare con moderata verve un confronto vinto in partenza tra ottusità e ragionevolezza. A emergere è quindi l’illustrazione di un contesto storico e di uno scontro epocale, preferendo la pennellata all’approfondimento.
