
TRAMA
Il giovane Kenai uccide il grizzly che considera responsabile della morte del fratello. Trasformato in orso dai Grandi Spiriti, dovrà compiere un lungo viaggio per ottenere il perdono e riacquistare sembianze umane.
RECENSIONI
Dato che – a quanto pare (ma a chi?) – non si vive di sola Pixar, la Disney prosegue coriacea nella propria opera di sfruttamento intensivo di canovacci supercollaudati e, così facendo, si scava allegramente la fossa. Sarebbe inutile e masochistico cercare in questo BROTHER BEAR un’impronta di originalità, ma quello che più infastidisce è la (s)garbata sciatteria che si presenta come autentica cifra caratteristica del progetto. Passi per l’argomento, che da archetipo è ormai divenuto (dopo una dose quantomeno incauta di follie imperiali e bestiali bellezze) soporifera raccolta di cliché, ma almeno alla messinscena gli studi di zio Walt avrebbero potuto consacrare qualche ora in più. Dopo una prima parte ai limiti dell’inguardabile (l’animazione dei personaggi umani è uno dei punti deboli della recente produzione disneyana, ma qui si esagera: le scene di vita della tribù sembrano realizzate con la fotocopiatrice) il film respira grazie alle figure comiche (i due alci che giocano a “indovina che cosa vedo” in un paesaggio in cui non c’è da vedere che un albero: una metafora involontaria dell’intera opera?) e al personaggio di Koda, loquace maestro di vita del protagonista, ma l’evocazione delle forze della natura rimane confinata nei dialoghi, prigioniera delle zuccherose note di Phil Collins. I registi squadernano vedute (nelle intenzioni) magniloquenti e fluttuanti squarci ultraterreni, ma il respiro del Cosmo non è che una brezza passeggera, utile a condurre nel porto dell’ovvia apoteosi (con tanto di tableau finale da denuncia) una leggenda che sa più di vecchio che d’antico (per caso abbiamo già detto che l’animale più feroce è l’uomo?). Non si può vivere senza amor fati. Sia pure. Ma senza film del genere si può vivere più che tranquillamente. Uno sberleffo al politicamente corretto (a misura di pesce: il Caso all’opera nelle megaditte dell’intrattenimento) alla fine dei titoli di coda: per chi si accontenta.

L’unico, vero trait d’union delle migliori produzioni Disney a cavallo del millennio è lo sceneggiatore Tab Murphy (Il Gobbo di Notre Dame, Tarzan, Atlantis) che, stavolta, instrada il plot (che piacerebbe a John Boorman) in un percorso di formazione un po’ scontato. Di Tarzan si replica anche l’apporto musicale di Phil Collins, in un tour de force che l’ha visto interpretare le sue canzoni (“Great spirits” è invece di Tina Turner) anche in italiano, francese, tedesco, giapponese e spagnolo. I due registi, esordienti, erano supervisori dell’animazione in Mulan e, se Aaron Blaise ha animato Pocahontas, sempre incentrato su simili “nativi americani”, Robert Walker è stato layout artist in Lilo & Stitch (e c’è una bambina uguale a Lilo): il loro tratto è abbastanza standard, sono invece notevoli gli sfondi naturali ispirati ai paesaggi di Albert Bierstadt. I due buffi comprimari alci, Rocco e Fiocco, sono modellati sui rispettivi doppiatori, Rick Moranis e Dave Thomas, famosi (solo in U.S.A.) proprio per questi caratteri di canadesi sciocchi.
