Commedia

KITCHEN STORIES

Titolo OriginaleSalmer fra kjøkkenet
NazioneNorvegia/Svezia
Anno Produzione2003
Genere
Durata92'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Negli anni ’50 un esperimento svedese prevede l’osservazione scientifica di un gruppo di scapoli norvegesi, per vedere come se la cavano in cucina. L’anziano Isak si offre volontario, ospitando nella sua casa l’inappuntabile Folke; egli si piazza su una sedia rialzata, in un angolo della cucina, e lì rimane tutto il tempo. I due non possono parlare, ogni rapporto umano può compromettere la riuscita del progetto; ma…

RECENSIONI

Un piccolo film scandinavo è la rivelazione degli Incontri Internazionali di cinema di Sorrento. Lo scheletro di Kitchen Stories è elementare quanto fulminante: La pellicola di Bent Hamer squarcia il sipario rotolandosi apparentemente nelle grinfie di una spassosa satira geopolitica; svedesi e norvegesi sono alieni a vicenda nel grande freddo nordico, ognuno scruta l’altro per comprenderlo (Isak buca il soffitto, trasformandosi da osservato ad osservatore). C’è un uomo che non vuole esautorare la sua tenera riservatezza, ultimo privilegio di un’esistenza solitaria; eppure si offre volontario per ottenere un cavallo, dato che la sua bestia si ritrova in punto di morte. Improvvisamente il cielo si scurisce; virata verso il basso, in picchiata contro la dura terra. La verità? Non era davvero una satira, inganno del momento, ma soltanto un riverbero di sorriso disteso tra nuvoloni plumbei. Un film sulla morte, dunque; questa si presenta nell’azzerante biancore del paesaggio (la neve che si accumula, metafora funeraria da Joyce in poi), si insinua strisciante nella silenziata memoria di un passato famigliare (Folke non ha parenti, soltanto una vecchia zia con cui passare il Natale), spalanca le fauci dell’invidia (il tentato “incidente” di Folke, nel bel mezzo di una ferrovia). Nell’assecondare il sottile gioco narrativo che condisce la pellicola, volutamente impercettibile, la metafora di fondo non esita a mutare di forma per confondere le carte: sembra che la morte venga a portarsi via un equino piuttosto malmesso, capace comunque di essere più uomo degli uomini, ma per la verità l’appuntamento è con qualcun altro. Non mi è rimasto nulla, dice Isak mentre Folke si allontana; dopo l’impossibile tentativo di ghiacciata indifferenza, si compie la formazione del rapporto umano come plasmato nell’argilla. La sua dissoluzione non fa altro che evidenziare il punto di non-ritorno: dopo aver assaggiato l’umano calore tornare soli con sé stessi significa realizzare che non ci è rimasto nulla. Anzi, forse qualcosa sì: un tavolo spoglio, che ospita in ordine sparso una pipa, tabacco, fiammiferi e basta. Ma non tutto muore: il legame tra due persone è destinato a ripetersi, forse in un moto circolare, durante la scena finale spiazzante e perfetta. Hamer compone un peana dedicato all’umanità ed a tutte le sue sfumature, accarezzandolo con un tocco intimamente commovente; si serve di quattro attori quattro, posizionandoli uno davanti all’altro come in una piece teatrale, tra cui giganteggia il burbero/tenero Joachim Carlmeyer nel ruolo di Isak. Questo esile diamante di gelido splendore si guadagna la segnalazione agli Oscar come miglior film straniero: non vincerà per troppi motivi –lo sappiamo tutti fin da adesso- ma perlomeno lasciatemi fare il tifo per lui. I soliti kolossal si ingozzino degli elogi di maniera; per adesso i miei idoli sono Isak e Folke, lo sguardo malinconico ed il sorriso accennato, il timido dialogo e l’esplosione di sentimento. L’originalità è un candido fiore del Nord totalmente fuori dalla logica, dal mercato, dal mondo: cinema finalmente indipendente (di nome, ma anche di fatto), che se ne frega di tutto e di tutti scegliendo di articolare un alfabeto che in pochi comprenderanno, singolare e toccante fino al violento zampillo dell’emozione.