TRAMA
Durante un’epoca incantata, l’ultimo discendente di un ordine mistico di guerrieri intraprende la ricerca dell’ultimo Settimo Figlio, l’eroe delle profezie nato con incredibili poteri, destinato a combattere una temibile strega e il suo esercito di mostri.
RECENSIONI
Ci sono film che, visti distrattamente sul digitale terrestre in una domenica pomeriggio di pioggia, intrattengono senza porre troppi interrogativi: storia lineare, contrapposizioni basiche, una regia professionale, interpreti appropriati, effetti speciali dignitosi (nonostante una fuffa informatica spesso riconoscibile, quindi invasiva). Il fatto è che Il settimo figlio non nasce per essere visto e dimenticato, lo si percepisce dalle forze in campo: alla regia il russo Sergej Vladimirovič Bodrov, già due volte candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero (Il prigioniero del Caucaso e Mongol); attori del calibro di Jeff Bridges e Julianne Moore, oltre a Ben Barnes, Olivia Williams e Djimon Hounsou; una sceneggiatura scritta a due mani da Charles Leavitt (K-PAX e Blood Diamond) e, soprattutto, Steven Knight (autore di Piccoli affari sporchi e La promessa dell’assassino, e regista di Locke); maestranze di lusso per scenografia (Dante Ferretti), colonna sonora (Marco Beltrami), fotografia (Newton Thomas Sigel, assiduo collaboratore di Bryan Singer), costumi (Jacqueline West, candidata agli Oscar per Quills e Il curioso caso di Benjamin Button) e montaggio (uno specialista di action come Paul Rubell).
L’elenco è necessario perché i talenti coinvolti nel progetto, uniti a un budget sostanzioso (95 milioni di dollari), lasciano intendere la volontà di andare oltre a un mero intrattenimento. Si punta a creare un’opera in grado di colonizzare l’immaginario imponendosi come pilastro di una serie. Il romanzo da cui trae origine è infatti il primo di ben tredici tomi e rimarca la volontà di Hollywood di trovare nuovi filoni letterari da spremere cinematograficamente a dovere. Invece è il tipico caso in cui la montagna partorisce un topolino. A incidere sul mediocre risultato sicuramente anche i problemi economici che hanno afflitto la lavorazione: la distribuzione passata in corso d’opera dalla Warner Bros alla Universal, il fallimento della “Rhythm and Hues Studios” che ha curato gli effetti speciali, con la necessità di un ulteriore esborso di 5 milioni di dollari per poter completare il film.
Aspetti esterni che, con tutta probabilità, hanno finito per condizionare l’esito del film, percepibili nella frettolosità delle caratterizzazioni e degli sviluppi, con un andamento intermittente di matrice videoludica, per cui succedono cose ma si arriva al dunque senza che le premesse siano state curate a sufficienza. Sono molti i passaggi approssimativi, con cambi repentini di alleanze, umori e strategie che evidenziano la fragilità dei caratteri, ancorati unicamente all’icona che rappresentano (la strega, il cacciatore, il giovane da iniziare, la bella, e così via) e con l’unica funzione di mandare avanti la trama. Nulla di atroce, come da più parti si legge, anche moderatamente simpatico, ma con tutti i limiti di un B-movie inconsapevole che arriva fuori tempo massimo, senza un target di riferimento preciso e incurante della sferzata data al fantasy, da Peter Jackson su grande schermo e da Il trono di spade nel piccolo. Incauto, al riguardo, il trait d’union con la serie televisiva grazie al piccolo ruolo attribuito a Kit Harington. Difficile, quindi, con tale pilot, che anche gli altri dodici volumi di Joseph Delaney trovino la strada della trasposizione.