TRAMA
Achille De Bellis, direttore di una catena alberghiera di lusso, licenzia una cameriera sospettata di furto: il giovane Orfeo, figlio della donna, vuole vendetta.
RECENSIONI
Che cosa è successo a Verdone? Che fine ha fatto il camaleonte comico (ancora in piena forma ai tempi di Viaggi di nozze), lo sceneggiatore arguto (Io e mia sorella, Maledetto il giorno che t’ho incontrato), il regista discreto e sempre presente (anche nelle opere più recenti, da C’era un cinese in coma a Ma che colpa abbiamo noi)? Insomma, come si spiega Il mio miglior nemico?
Le pre(/o/)messe: il vecchio saggio Verdone introduce e cede il testimone all’attor giovane Muccino nella cornice di un tragicomico confronto generazionale (questo, più o meno, il senso delle settantamila interviste radiotelevisive rilasciate dagli interessati negli ultimi mesi). Il risultato: un film patinato, moscio, in cui l’elemento comico è da Bagaglino (le scene al pronto soccorso) e quello tragico (Edipo come se piovesse) sa di salotto televisivo pomeridiano (soprattutto quando vorrebbe "darsi un contegno": esemplare in questo senso la scena del commissariato). La sceneggiatura ha più buchi neri che altro (per dirne una, dove trova Achille, cacciato di casa e ridotto sul lastrico, i mezzi per inseguire la figlia?), i dialoghi si trascinano faticosamente fino al ridicolo involontario ("Ma perché tua madre prende tutte queste pasticche?", "È depressa. Però è simpatica", ma anche l’esposizione della Weltanschauung di Orfeo: "Le persone si dividono in due categorie: c’è chi è litio e c’è chi è anfetamina"), i personaggi sono stinte macchiette (ma forse è meglio così, perché i cambiamenti repentini – vedi la figura del cognato – sono anche peggio nella loro scomposta isteria), la macchina da presa si preoccupa esclusivamente dei prodotti da reclamizzare (una certa ditta di telefonia mobile deve essersi dimostrata molto generosa: il suo logo compare – non di rado a tutto schermo – ogni dieci inquadrature) e delle location superchic (la trasferta estera, tappa fissa dei film di Verdone, per l'occasione raddoppia: Ginevra e Istanbul), disdegnando un tema potenzialmente forte – anche se non originale – come quello della scopofilia (le immagini riprodotte che prima distruggono e poi salvano la vita di Achille). Il risultato: non si ride manco per sbaglio (con un’eccezione: la scena nello studio, l’unica in cui si spinge fino in fondo il pedale dell’assurdo). L'operazione non è riscattata neppure dagli interpreti, che risultano stonati, quando non assolutamente inadeguati, ora immoti ora fastidiosamente sopra le righe.
Una caduta da dimenticare. E alla svelta.