TRAMA
Salvo aveva cinque anni quando suo padre Vincenzo è stato arrestato, praticamente davanti ai suoi occhi. Sette anni dopo Salvo vive con gli zii e il cuginetto un’esistenza controllata e tranquilla nel torinese: ma suo padre torna e reclama il figlio per quattro giorni. Vincenzo deve trasportare un carico importante fino a Bari e porta con sé Salvo come assicurazione: un bambino è meglio di una pistola, afferma, perché la sua presenza nel caso di un eventuale fermo di polizia può avere un effetto-distrazione. Questo però non è l’unico motivo per cui Vincenzo vuole Salvo con sé, e il bambino si rivelerà un potenziale veicolo di redenzione per quel padre scombinato ma non del tutto privo di sentimenti e attenzioni.
RECENSIONI
«Un bambino è meglio di una pistola». Il ladro di giorni nasce, prima ancora che da un romanzo, da un soggetto vincitore nel 2007 del Premio Solinas per il cinema. Un'idea originale e non priva di fascino, che in un certo senso prosegue il discorso legato alle educazioni criminali del regista Guido Lombardi, già autore di Là-bas: il piccolo Salvo, 11 anni, deve seguire suo malgrado il padre pressoché sconosciuto in un lungo viaggio in macchina verso Bari, scoprendo moltissimo di se stesso e di quel genitore imprevisto e imprevedibile che fino a quel momento aveva semplicemente odiato per partito preso. Lombardi gira con mano sicurissima, e nel passaggio tra pagina scritta e schermo propone uno scarto non sempre e non del tutto giustificato: quello che nel libro era il punto di vista del ragazzino, destinato a non comprendere del tutto ciò che gli accade e gli affari illeciti in cui è invischiato il papà, diventa nel film un generico occhio esterno, a volte attinente allo sguardo del bambino e altre volte a quello dell'adulto. E a volte un po' a nessuno dei due, come se nei sedili posteriori dell'automobile, nelle soste agli autogrill e negli spostamenti della coppia ci fossimo anche noi, terzi incomodi chiamati sempre – ma passivamente – in causa. Questo nostro osservatorio privilegiato ci permette di giudicare la successione degli eventi in modo distaccato e oggettivo, scoprendone così inevitabilmente anche i limiti e le mancanze.
Se la costruzione e la caratterizzazione dei personaggi principali, ad esempio, è totalmente credibile e funzionale (e in questo senso ci preme sottolineare come Riccardo Scamarcio offra una performance sempre a fuoco, tra cupezza e sbruffoneria), lo stesso non si può dire di una sceneggiatura che mescola con troppa facilità generi e sottogeneri tra loro lontani. Ai più evidenti coming of age e on the road seguono il revenge movie e il melodramma, fino all'approdo ad una curiosa parentesi simil-western, nella rappresentazione della malavita pugliese. Tutti questi “scossoni” – utili probabilmente a conferire un minimo di imprevedibilità ad una storia di cui conosciamo a grandi linee l'epilogo fin dalle prime sequenze – minano l'attendibilità di una narrazione fragile ma mai approssimativa, che chiede un grosso patto con chi guarda per potersi reggere in piedi. Ed è altresì vero che Il ladro di giorni sembra giocarsi le sue carte anche su un diverso terreno, legato più all'emotività che al calcolo bilanciato di verosimiglianza e credulità. Contano l'anima, il trasporto, l'empatia; conta la capacità di comunicare una sensazione, un sentimento, un'impressione, senza esplicitarle nei minimi dettagli e soprattutto senza fare ricorso al grimaldello della retorica. In questo Lombardi centra pienamente l'obiettivo, finale compreso: non la morale “logica” che sarebbe lecito attendersi, ma una sua versione più impulsiva e affettiva, in linea con il tono che attraversa l'opera.
