Biografico, Drammatico, Recensione

IL GIOVANE FAVOLOSO

TRAMA

Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798. È un bambino prodigio che cresce sotto lo sguardo implacabile del padre, uomo che disponeva di una biblioteca da far invidia alle grandi corti europee. La mente di Giacomo spazia, ma la casa è una prigione: legge di tutto, ma l’universo è fuori. In Europa il mondo cambia, scoppiano le rivoluzioni e Giacomo cerca disperatamente contatti con l’esterno. A 24 anni lascia finalmente Recanati. L’alta società italiana gli apre le porte, ma lui non riesce ad adattarsi e vive una vita piena di aspettative e di desideri, ma segnata dalla malinconia.

RECENSIONI

Martone continua il suo personale percorso attraverso la storia e la cultura italiana del XIX secolo che caratterizza, negli ultimi anni, la sua attività cinematografica e parte di quella teatrale: è in quel periodo che vanno rinvenute tracce significative del nostro presente e la figura di Leopardi - le cui Operette Morali, proprio in quanto concentrato dello spirito del tempo e della visione del suo autore, furono portate in scena un paio di anni fa  dal regista -, decisiva quale risulta, va riscattata dal santino trito (così lontano dal vero - e dalla sua opera, se la si leggesse -) cui un polveroso immaginario scolastico l’ha condannata.
Per la rappresentazione della vita di Leopardi Martone si attiene strettamente agli scritti del poeta e al suo epistolario, non aggiunge nulla, non interpreta, quello che vediamo è quanto emerge dai documenti (la stessa presunta omosessualità allora diventa un cenno, una possibilità celata in quello sguardo al corpo nudo di Antonio Ranieri). II discorso del regista è tutto proteso alla messa in scena, che ancora una volta muovendo da logiche teatrali, finisce con il farsi squisitamente cinematografica: la casa-biblioteca come la gabbia in cui il talento smisurato del protagonista viene imprigionato ed alimentato, in cui il cuore del poeta batte disperatamente, laddove il mondo esterno si impone come dimensione immaginata; il confronto drammatico con la figura paterna, che culmina nella scena del surreale processo privato, all’indomani del tentativo di fuga da Recanati: camera a mano e convivenza di una dimensione realistica (le risposte sussurrate da Leopardi alle incalzanti domande degli adulti) e una mentale (l’urlo vomitato in faccia ai suoi interlocutori); il cattolicesimo estremista della madre come canone ribaltato in una visione razionale implacabile che si convertirà in rivluzionario, spietato disvelamento del meccanismo finto e ipocrita che governa la società e i circoli letterari, una volta che, libero dai lacciuoli della casa familiare, Giacomo vivrà senza imposizioni la sua esistenza, fiaccata costantemente dalla malattia.

Il regista flirta con la convenzione del biopic televisivo, come concepito oggi in Italia, dall’altra la smentisce con il rigore di un racconto articolato in un susseguirsi continuo di quadri e quadretti in cui la vita di Leopardi va a coincidere strategicamente con la sua opera: la scrittura leopardiana, del resto, è costante autobiografia (Martone: «Leopardi sa, con molto anticipo su Proust, o su Beckett, che solo la radicale esperienza di se stessi consente la partita con la verità»): così tutto (dalla giovinezza torturata all’infatuazione a distanza, dall’amore inseguito per interposta persona - Fanny, amata da Ranieri - all’incomprensione delle cricche intellettuali, fino al vitalismo che ignora le invalidità che gli minano il corpo) viene concepito in questa chiave simbiotica. E in questo ritratto-opera l’epoca è implicita, mai messa in primo piano, fondale significativo in cui l’avventura umana e letteraria del protagonista, costantemente in campo, si dispiega e si afferma. E l’aspetto della rappresentazione come quello visivo (la splendida fotografia è di Renato Berta, al fianco del regista anche in Noi credevamo) suonano potenti, esaltati, come risultano, dallo splendore pittorico delle composizioni (i vicoli napoletani come presepi, il bordello come una darkroom caravaggesca), dall’aspetto quasi operistico col quale il regista risolve certi frangenti, fino al crescendo visionario del maestoso finale de La Ginestra.

Con Il giovane favoloso (il titolo proviene da Anna Maria Ortese che in Da Moby Dick all’Orsa Bianca così descrive il suo pellegrinaggio alla tomba del poeta: «Così ho pensato di andare verso la grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso») è ancora una volta una possibile strada battuta dal regista tra un lavoro radicale e un romanzo popolare: la stessa colonna sonora risponde a questa doppio registro, con la musica tradizionale che si associa a quella elettronica di Apparat, ulteriore dimostrazione di come l’autore ami agire su questo tipo di contrasti. Impressione confermata dal ritratto stesso del poeta, personaggio teatralizzato, figurativamente caricato fino al “burtoniano” e, dall’altra parte, anima restituita nella sua quintessenza razionale e selvaggia, impetuosa e sconsolata. Leopardi nel film di Martone è l’uomo che recita i suoi poemi, avendo nella poesia l’unico modo per dire e per dirsi una cosa: così i quindici versi de L’Infinito (nati dall’esperienza quotidiana con un limite che apre le porte dell’immaginazione, a ciò che è oltre quel limite), suonano, nella recitazione “vera” (non declamatoria, ma intima, sincera, propria di una persona che ha scritto quelle parole e "le sente") di Elio Germano, come il consuntivo in diretta di una condizione esistenziale, quella di un uomo che riesce a trapassare le barriere che gli si oppongono (tutte) e a muoversi più lontano; quanto di meno didascalico e convenzionale, quanto di più autentico si potesse immaginare per restituire il senso ultimo della sua figura.