
TRAMA
La terra è nelle protese mani dei morti viventi, come al solito affamati di carne umana. Un manipolo di sopravvissuti, all’interno di una base militare sotterranea, cerca di resistere, resistere, resistere.
RECENSIONI
Terzo capitolo della saga dei Morti di Romero, Day of the Dead è, in attesa di Land of the Dead, l’anello debole della catena: smarrita la forza della novità (The Night of the Living Dead) e archiviata la messa a fuoco di tutti i punti nodali della cosmogonia zombica (Dawn of the Dead), a Day non rimane che riproporre il tutto, con pochi aggiornamenti, in un horror che appare così più convenzionale dei suoi due predecessori. L’inizio suggestivo e molto citato [1] (la città apparentemente deserta in mano ai morti viventi), chiarisce subito il legame coi precedenti capitoli del ciclo: se The Night mostrava la vera dawn dei morti viventi e Dawn presupponeva invece un’apocalisse in corso d’opera, il Day of the Dead è in realtà il day after, ossia la post apocalisse, della quale Romero non sente più il bisogno di esplicitare le cause. Rispetto ai primi due capitoli, dunque, nel terzo si sente la mancanza di un valido sottotesto (neanche tanto sotto-) sociopolitico a nobilitare l’operazione, di quella chiave di lettura seria ma non seriosa che, senza appesantirlo, dotava il ciclo dei morti di un fascino aggiuntivo e assolutamente non trascurabile. Questo lato critico, “di denuncia” del film, che pure è presente [2], lascia stavolta indifferenti se non peggio ed è limitato alla descrizione delle difficili interazioni umane all’interno dell’eterogeneo manipolo di sopravvissuti; trattasi del parto naturale della solita struttura “assedio a luogo chiuso in cui esplodono le tensioni”, dove il luogo stavolta è una base militare con tanto di militari (ovviamente) ottusi, caricature dall’impatto emotivo/riflessivo nullo e comunque insufficienti, da sole, a giustificare credibili letture di stampo pacifista o anti-reaganiano . Gli unici elementi “nuovi” (ma spesso pleonastici) del film si riferiscono propriamente all’universo zombi e sono collegati alla grottesca (e riuscita) figura del Mad Doctor e alle sue strampalate sperimentazioni. I (non) morti, viene chiarito una volta per tutte, agiscono in assenza di reali motivazioni fisiologiche perché una volta privati degli organi interni, apparato digerente compreso, continuano ad avere fame di carne umana, il che ci riporta alla (già) nota metafora anticonsumista: gli zombi come “consumatori finali”, definitivi, spinti dall’ossessivo impulso di soddisfare bisogni inesistenti. Elemento realmente inedito è invece la presenza dello zombi pensante Bub, amante della buona musica, relativamente disciplinato ed emotivamente “umanoide”, tanto da piangere (e poi vendicarsi) per la morte del suo dottore-scienziato-pigmalione. Dove inveceDay non delude affatto è dal punto di vista registico, col solito Romero essenziale e quasi “spartano” ma abilissimo nella gestione degli spazi e nella scansione dei tempi, nonché capace di confezionare tensioni e ansie come pochi altri. Tom Savini è forse ai massimi storici, ma il suo accurato lavoro splatter solleva più di una perplessità sulle reali capacità fisico/atletiche degli zombi: deboli catorci ambulanti o belve feroci capaci di smembrare un uomo a mani nude? Prendiamo comunque atto, al di là di tutto, che Day of the Dead è figlio di un compromesso: l’ambizioso progetto iniziale prevedeva una durata maggiore e un budget di 7 milioni di dollari per quello che doveva essere una sorta di “Ben Hur with zombies” (Tom Savini). La produzione chiese però un film più soft di quello scritto dal regista, con l’obiettivo di evitare il divieto ai minori. Romero rifiutò e decise per una maggiore libertà, al costo di un budget ridotto (3 milioni di dollari) e di un ridimensionamento generale che lo costrinse a riscrivere, semplificare e comprimere la sceneggiatura originale.
